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E poter dire ancora: “Sembra Bagdad”

Lo scroscio delle fontane copre quasi la voce, un cielo pesante e caldo d’umidità nonostante sia dicembre, Noor Alden ci precede di qualche passo, è sorridente, lo è stato per tutto il tempo del nostro tour tra le strade di Bagdad: “Questa piazza è vuota, ma è vuota perché è il simbolo di quello che c’era e adesso non c’è più. Questa piazza è vuota da 20 anni perché rappresenta il cambio di un’epoca, tra Saddam e adesso”.

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Dall’ uscio di casa alla montagna più alta. La scalata al campo base dell'Everest

La videocamera appoggiata sul sedile della macchina, nuova nella sua confezione, la mia prima videocamera. Sono passati quasi 15 anni da quando decisi di provare a fare il video maker, fino ad all’ora avevo semplicemente una bravura per fare i video, un diploma di geometra, una laurea in scienze statistiche, varie situazioni mi avevano portato ad essere in quel momento senza lavoro, decisi allora di seguire la mia passione: “Nonno faccio il video operatore”. Non avevo nessun contatto, dovevo cominciare da zero, non ero nessuno, era un salto nel vuoto, una scalata senza appigli. Mio nonno Matteo, con i suoi 90 anni, probabilmente non comprese nemmeno veramente quale fosse il mestiere che volevo fare, mi rispose con una domanda: “Tu lo sai qual è la montagna più alta?”

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Etiopia, la promessa di Natale alle fonti del Nilo

La città dei grattacieli si apre di fronte a noi, costruzioni del futuro circondate da distese di lamiere domestiche. I chicchi verdi di caffè stanno tostando sulla brace, una preparazione lenta, un vero e proprio rito per la popolazione locale, un caffè che ci risveglia dal lungo viaggio.

Una notte in aereo, Addis Abeba si è presentata a noi quando ancora era buio. Abbiamo organizzato tutto in pochi giorni, “Matteo, dobbiamo andare in Etiopia a vedere un ospedale e parlare con il Ministro” il messaggio del dottore Agati, al quale puoi semplicemente rispondere “Dimmi solo quando e ci sono”.

Ci ha accolti Demeke, cardiologo pediatrico fiero del suo mestiere. Lo scorso anno è stato sei mesi in Italia, ha studiato al reparto di cardiochirurgia pediatrica di Taormina, dove il dottore Sasha Agati, primario del centro, è stato il suo maestro. Si è perfezionato prima di tornare a casa e cercare di salvare i bambini cardiopatici nel suo paese. Ma da soli la chirurgia non si fa; quindi la richiesta di una visita al Ministro della salute, la possibile speranza di portare in Africa l’equipe italiana per operare i piccoli.

È il giorno della ricorrenza della Santissima Trinità, le strade sono piene di fedeli copti, le teste coperte da veli bianchi, le candele, l’incenso. La folla. Mi segno con una croce frettolosa mentre attraverso l’ingresso della cattedrale, camminando, senza fermarmi, è Demeke a farmi notare l’accaduto senza che io me ne sia reso conto, un rimprovero gentile. Osservo il resto dei fedeli fermarsi dritti sulla soglia d’ingresso, farsi la croce, procedere.

In Europa la gente in strada ha uno scopo, va in una direzione precisa, ha un ritmo spesso scandito dalla fretta. Nelle grandi città africane in pochi seguono questo comportamento. Il tempo viene restituito alla sua funzione. In tanti non hanno dove andare, si spostano seguendo l’ombra, aspettano il passare delle ore.

 

Un ragazzo passa con un carico di erbe sulla testa, sono ceci, li mangiamo verdi, sbucciando un baccello alla volta, come vuole la tradizione in questo periodo.

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La forza della resa

È capitato a tutti di dover tornare indietro sui propri passi, capita a tutti di ritenere opportuno cambiare decisione, arrendersi stremati di fronte ad un impegno fisico, modificare i piani davanti a scelte familiari, morali, sentimentali. Qualche anno fa, trovandomi al cospetto di “sua maestà”, il vulcano Etna, ho dovuto rinunciare al piacere di raggiugere la vetta, stremato e sconfitto dalla furia degli elementi, con la cima distante poche centinaia di metri, ma nascosta alla mia vista dalla nebbia e dalla pioggia gelida. La ragione, mio malgrado, mi ha suggerito che fosse meglio ripiegare, protetto dal calore del rifugio più vicino. Arrendersi non è sintomo di vigliaccheria o debolezza, è espressione di saggezza, controllo, coscienza dei limiti oltre i quali è meglio non spingersi.

 

Immagino fossero gli stessi pensieri del chirurgo, quando in un ospedale libico, si è trovato di fronte al bivio da prendere: continuare ad operare o arrendersi al problema che si poneva davanti? I dubbi affollavano la mente dell’intera equipe italiana presente al Cardiac Center di Bengasi, mentre mi trovavo in volo verso Tunisi, tappa di passaggio per il mio arrivo in Libia, in balia dei fisiologici ritardi che gli aerei accumulano da questa parte del Mediterraneo. I ragazzi si trovavano lì già da una settimana, decine di bambini operati al cuore in una missione umanitaria che si stava rivelando un successo. Finalmente, smaltiti i miei impegni di lavoro, ero pronto ad unirmi alla squadra.

Arrivo a Bengasi in piena notte, accolto dall’abbraccio di Alì. È la mia quarta volta in Libia, le immagini di alcuni luoghi si legano alle persone, rivedere volti familiari è sempre come tornare a casa. Passaporti, barriere, soldati, polvere, il buio totale della notte di Bengasi.

La hall dell’albergo è deserta, immagino che medici e infermieri siano a letto da un po’, la partenza per l’ospedale è sempre di buon’ora la mattina. Il mio messaggio sul gruppo WhatsApp per conoscere l’orario di partenza, è rimasto stranamente senza risposta.

La voce del muezzin mi risveglia all’alba, scuotendomi dalle poche ore di sonno.

Raggiungo i ragazzi ai tavoli della colazione. Caffè, aromi, preghiere, facce stanche. Cinzia mi invita a sedere accanto a lei, è la prima a darmi la notizia: gli interventi chirurgici sono sospesi, la missione è annullata. La febbre alta ha colpito dei bambini durante la fase post operatoria. Un virus? Un batterio? Pensiamo tutti la stessa cosa, ma esorcizziamo la situazione non pronunciando la possibile causa. 

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No good morning No good night

Reportage nei territori palestinesi

Il muro. Le reti di metallo, le divise dei militari, le torrette di controllo, i fari, i chek point, i mitra pronti ad entrare in azione. I 12 metri di cemento del muro di separazione.  Tutto ti racconta che da quel punto in poi sei in una zona di guerra. Inizia così il documentario del video maker messinese Matteo Arrigo, un viaggio in Palestina tra i volti, la quotidianità, la sofferenza.

 

(articolo su Gazzetta del sud del 08/12/2016)



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