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E poter dire ancora: “Sembra Bagdad”

Lo scroscio delle fontane copre quasi la voce, un cielo pesante e caldo d’umidità nonostante sia dicembre, Noor Alden ci precede di qualche passo, è sorridente, lo è stato per tutto il tempo del nostro tour tra le strade di Bagdad: “Questa piazza è vuota, ma è vuota perché è il simbolo di quello che c’era e adesso non c’è più. Questa piazza è vuota da 20 anni perché rappresenta il cambio di un’epoca, tra Saddam e adesso”.

Missione Iraq

Appena tre giorni fa ero a casa, a letto a fare il mio pisolino pomeridiano, accendo il cellulare, un messaggio del primario: “domenica dobbiamo andare a Bagdad per vedere un ospedale”. L’Iraq. Non so come focalizzarlo, le ultime immagini che i media ci hanno riportato erano di un paese distrutto, piegato, violentato dall’ Isis e dalla guerra civile nel primo decennio del 2000. Più lontani, ma ancora vivi, i ricordi degli anni ’90, la guerra del Golfo, l’attacco con i missili annunciato in diretta tv. Era una domenica pomeriggio, di ritorno dalla messa assistemmo all’inizio della guerra, il primo conflitto da guardare dal salotto di casa.

Proprio in quel periodo, era diventata di uso comune un’espressione che usavamo quando dovevamo descrivere una situazione di disagio abitativo, ruderi, macerie: “Sembra Bagdad”. Un quartiere cittadino sporco e disordinato. “Sembra Bagdad”. La descrizione di un palazzo vecchio e cadente. “Sembra Bagdad”. Nelle nostre case arrivavano le immagini di una città sotto attacco, massacrata dalle bombe americane. La capitale irachena demolita, un cumulo di pietre. “Sembra Bagdad”.

 

Rileggo il messaggio. "Dobbiamo andare a Bagdad". L’Iraq oggi è un paese sicuro? Forse è solo un sospetto covato in qualche angolo della mia mente, ma per tranquillità comune evito di informare la maggior parte delle persone della mia partenza. Due soli voli da Catania, via Istanbul, e in una notte arriviamo nella capitale irachena. La fila per i visti d’ingresso è sempre lunga in questo angolo di mondo, abbiamo un accesso prioritario, ci aspetta fuori dall’aeroporto l’auto del Ministero, non dovremmo tardare, ma non ne abbiamo certezza.

 

Ci uniamo alle decine di viaggiatori in attesa, famiglie, documenti, veli, penne, chador, fogli. Dopo un’ora, quando la folla è quasi del tutto smaltita, siamo ancora ad aspettare, del funzionario che ha preso in carico i nostri passaporti nemmeno l’ombra. Due ore. C’è un problema sul passaporto di Sasha ci spiegano. Tre ore. Sonnecchio a tratti vinto dalla stanchezza di una notte in bianco, vedo Sasha vagare per la zona controlli come un leone in gabbia. Quattro ore. Nessuna notizia, il contatto del ministero ci scrive via WhatsApp che stanno cercando di risolvere. Cinque ore. Siamo ormai convinti di tornare in Italia con il volo della sera, quando finalmente si materializza un funzionario in divisa militare. Ha chiamato direttamente il Ministro, dopo cinque ore di attesa basta un minuto per avere i timbri sui passaporti. 60 secondi ed entriamo in Iraq.

La "Mecca" d'Iraq

Palazzi, palme, carretti, minareti. Viaggiamo verso sud, destinazione Karbala, dove vedremo i primi due ospedali. Campi di pomodori, coltivazioni in serre. Numerosi canali di irrigazione si staccano dal fiume Eufrate come vene vitali dall’arteria principale. Siamo nel cuore della Mesopotamia, la terra tra due fiumi, ricca e fertile. Culla dell’ingegno e dell’umanità.

Il nostro hotel è in pieno centro, respiriamo l’aria caratteristica dei quartieri arabi. Ad aspettarci è Ahmed, manager del Ministero della Salute: “Scusate se non abbiamo un albergo migliore”, vogliono mostrarci il loro meglio, ed è giusto così. Il Turkish hospital si trova fuori dal centro città, una struttura nuova, la cardiochirurgia aperta da due anni appena. Un’ intera ala è destinata agli alloggi di medici e personale sanitario, una foresteria ampia e pulita. La prima impressione è positiva, luogo ideale per la chirurgia pediatrica. È in corso una missione medica russa, hanno operato parecchi bambini.

Lasciamo l’ospedale per un giro in città, si è aggiunta al gruppo Irina, anestesista sovietica, è il suo ultimo giorno di missione in Iraq. Ci dirigiamo a piedi verso la grande moschea, dopo però aver fatto tappa al mercato locale dove Irina è costretta a comprare uno chador, la lunga veste nera delle donne mussulmane. Andare in città con il capo scoperto non sarebbe il massimo, non ci sono donne senza velo, lo indossa anche lei un po’ stizzita: “Non condivido questa usanza, ma l’accetto”.

Karbala è una città profondamente tradizionalista, la “Mecca” dell’Iraq, la città santa degli sciiti. Sono a milioni i pellegrini che da tutto il mondo si recano a visitare i mausolei di Abbas e di Hussein, terzo imam degli sciiti, martire della battaglia di Karbala nel 680, che fu l’inizio dello scisma e della guerra, mai finita, tra sciiti e sunniti.

Una folla immensa si accalca per riuscire ad entrare a pregare sulle tombe dei martiri. Una cupola svettante ricoperta d’oro. Migliaia di donne in larghi chador neri, una distesa di gente, la vista è impressionante, per noi occidentali un misto di sensazioni. L’interno è tappezzato di mosaici dorati, tappeti, decorazioni in vetro. Voci, pianti. I fedeli pregano tenendo delle piccole pietre strette al petto. Litanie, versi, lamenti sempre più forti. Una bara viene portata a spalla seguita da un corteo di uomini in preghiera e donne in lacrime. Pianti, grida di dolore.

 

Stormi di uccelli volteggiano sullo sfondo di un cielo rosato. Il secondo ospedale da visitare, il Imam Zain El Abidine Hospital è in centro città, più piccolo rispetto al primo. Tra i corridoi la sensazione di accoglienza, di familiarità, di gentilezza. Se l’incontro con il Ministro avrà esito positivo, allora con molta probabilità sarà qui la missione italiana.

Babilonia

Lasciamo la mattina presto Karbala, sarà una giornata di incontri istituzionali a Bagdad. Sulla strada facciamo sosta ad al-Hilla, cittadina d’ingresso ai resti dell’antica Babilonia. Proprio in questo angolo remoto del pianeta terra, la storia ha avuto una delle sue espressioni più alte. Tornano alla mente i libri di scuola, il codice di Hammurabi, gli Assiri, il Tigri e l’Eufrate, Nabucodonosor, i testi biblici, la torre di Babele, la mitologia, i giardini pensili. Un lungo viale conduce ai resti archeologici: “Buongiorno” ci saluta la guardia quando gli diciamo che siamo italiani, un gruppo di nostri connazionali è stato in visita il giorno prima. La porta di Ishar, era l'ottava porta della città interna di Babilonia, una copia accoglie oggi i visitatori, le parti originali si trovano a Berlino. Dell’antica città resta ben poco, probabilmente c’è molto sotto la sabbia, in futuro degli scavi archeologici potrebbero rivelare di più. Le mura presenti sono state ricostruite per volere di Saddam, un’opera non necessaria a mio non competente giudizio, ma che serve a capire comunque l’imponenza di quella che era Babilonia.

 

Poco distante, in cima a una collina sul fiume Eufrate, si erge quello che fu una delle regge di Saddam, un palazzo immenso di marmo e stucchi, bassorilievi autocelebrativi che raccontano l’era di governo del dittatore. Appena 10 anni fa, questa zona era un campo di battaglia. Il palazzo è stato in parte distrutto e saccheggiato dopo la deposizione di Saddam, i saloni vuoti, le vetrate a pezzi, una veduta commovente sul fiume. C’è un progetto per trasformarlo in museo. Una ragazza senza velo ha in mano una rosa rossa, un selfie con vista sulle palme, gli iracheni oggi ci vanno a fare foto, tra i giardini di Babilonia, la culla dell’umanità.

In aiuto dei bambini

Venire a capo al traffico di Bagdad è un’impresa ardua, attraversare il centro vuol dire impiegare ore, macchine a passo d’uomo, ingorghi chilometrici, semafori infiniti, in poche altre città ho visto il caos della capitale irachena. Bagdad è aperta al cambiamento, capelli sciolti, marchi famosi, scarpe da tennis e modernità. L’hotel Babilonia è un’oasi di lusso sulle rive del Tigri, i controlli per entrare sono scrupolosi, metal detector e cani anti esplosivo. L’interno è costellato di decorazioni natalizie, posate finemente rifinite, porta tovaglioli in pelle, arredamenti in legno pregiato, fontane musicali. Incontriamo il Ministro seduti ad un tavolo con vista sul fiume. Il dialogo è istituzionale ma aperto, la fiducia si misura dalle prime parole, Sasha ha operato migliaia di bambini in ogni angolo di mondo: “La cosa più importante non sono i soldi, la cosa importante è fare la differenza, vivere la vita e, a volte succedono i miracoli”.

 

Una stretta di mano sincera, ancora prima di firmare l’accordo: “Siamo pronti ad accogliervi”. Trecento bambini verranno operati negli ospedali di Karbala nel 2024. È la prima missione italiana di cardiochirurgia pediatrica che si programma nel paese. Un orgoglio per entrambe le nazioni. 

Svegliarsi dalla guerra

Centinaia di mosche volano intorno alla nostra colazione, una sfoglia dolciastra da consumare con le mani, al tavolo su un marciapiede. Liberation Square, la piazza della liberazione: “Da qui comincia il nostro giro per la città”. Noor, iracheno ventiduenne di Bassora, da qualche anno vive e studia nella capitale. “Fino al 2019 in questa piazza non ci potevi stare, intorno c’erano i cecchini”. Inizia con la rivolta contro il governo la nuova storia dell’Iraq, quando dopo Saddam, l’Isis e il controllo americano, il popolo ha capito che finalmente era giunto il momento di riprendersi la propria vita: “La rivoluzione vide gli iracheni ribellarsi contro il governo fantoccio, i militari capirono che non potevano sparare alla popolazione, perché quelle persone in piazza erano i loro stessi figli”. Dal 2019 l’Iraq vive una normalità, almeno apparente, anche se le cicatrici sono evidenti, basta fare un giro nella città vecchia per capire che ancora la povertà è un problema, le ferite aperte, fra le bancarelle di rame, i mendicanti e alcuni quartieri ancora da ricostruire. Il mercato è stipato di ambulanti e compratori, l’aria profuma di odori misti, il sangue sui coltelli del macellaio, la menta, il cibo cotto, il fumo dei narghilè. Il bazar è mille mondi messi insieme, stoffe e gioielli, vecchie tv, manichini, tappeti polverosi. E libri, tantissimi libri, colori, tele, tavolozze, matite. Segno di un popolo colto e amante dell’arte.

Parlare della guerra è sempre un argomento difficile, può essere doloroso o liberatorio, non chiedo nulla fino a quando non sono certo che sia Noor a volerne parlare: “Quando c’era la guerra ho dovuto lasciare la scuola, i grandi hanno perso il lavoro. Tutte le guerre sono un orrore, i conflitti portano sempre miseria e lutti alla popolazione”.

Palazzi dai merletti di pietra, le barche sul fiume Tigri, tantissimi ragazzi tra i viali. Alberi di Natale e luci colorate. I raggi del sole illuminano trasversalmente i minareti: “Questa è l’ultima tappa, grazie per la vostra visita”. C’è però ancora un ultimo posto che vorrei visitare, un luogo visto in tv che non riesco ad immaginare come possa essere nella realtà di oggi: “Possiamo andare dove c’era la statua di Saddam?”, mentre formulo la domanda le labbra di Noor si aprono leggermente in segno di sorpresa: “Si, possiamo”.

 

Firdos Square. Palazzoni e fontane: “Sono felice che mi abbiate chiesto di venire qui”, sussurra Noor mentre attraversiamo la strada: “Come vedete questa piazza è vuota, ma è vuota perché è il simbolo di quello che c’era e non c’è più”. Inizio d’anno 2003, gli americani invadono l’Iraq con la chiara intenzione di porre fine alla dittatura di Saddam Hussein. È una ventata di ottimismo per il popolo iracheno, da sempre spinto dalla paura all’obbedienza a Saddam. Ma quella volta qualcosa cambia, è il 9 aprile 2003, mentre Saddam è ancora nascosto in qualche parte della città, migliaia di iracheni convergono nella piazza dove si erge una sua enorme statua celebrativa, aiutati da mezzi meccanici americani la tirano giù, con catene e picconi. È la fine simbolica della dittatura, la fine di un’era cominciata negli anni settanta. Pochi mesi dopo Saddam viene catturato. Nel novembre 2006, è giudicato colpevole da un tribunale iracheno per crimini contro l'umanità, e condannato a morte per impiccagione. 

“In questo punto c’era Saddam” Noor indica una placca metallica sul pavimento al centro della piazza: “È qui che abbiamo festeggiato”. Un momento che ha segnato la fine di un periodo buio, ma non la pace completa; nel 2005 scoppierà la guerra civile, nel 2014 l’occupazione degli integralisti islamici dell’Isis, nel 2019 la rivoluzione contro il governo: “Immaginate che dopo tutto questo avrei avuto tutte le ragioni per andare via dall’ Iraq, ma non l’ho fatto. E perché non l’ho fatto? Perché tutti questi problemi mi hanno fatto capire che il mio posto è qui, ho un ruolo da svolgere, per ricostruire il paese e renderlo un posto migliore. Le difficoltà ci hanno resi più forti. Ci sono buoni e cattivi in tutti i posti, ma tutti vogliono vivere. Ho capito che siamo in grado di cambiare se ci diamo una mano, possiamo cambiare se restiamo uniti”.

Il sole è andato rendendo più fresca una calma notte d’oriente. Le luci delle fontane e degli alberi di Natale illuminano le strade cantate nelle Mille e una notte. Saluto Bagdad e tutte le emozioni ricevute. A dispetto di qualche timore iniziale, non ho mai avuto la sensazione di insicurezza o paura. Su profilo Instagram Noor ha scritto “I don’t want to forget”. Non voglio dimenticare. Kabul, Sarajevo, Bengasi, Kiev, Gaza, dopo Bagdad altre città hanno conosciuto lo stesso destino, il sibilo delle bombe, la distruzione.

 

Bagdad non ha dimenticato ed è ripartita, tra libri, colori, miseria, musica, fontane. La speranza che la guerra smetta di distruggere città e possiamo vederle rinascere, per poter dire ancora oggi come facevamo negli anni novanta: “Sembra Bagdad”.