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La forza della resa

È capitato a tutti di dover tornare indietro sui propri passi, capita a tutti di ritenere opportuno cambiare decisione, arrendersi stremati di fronte ad un impegno fisico, modificare i piani davanti a scelte familiari, morali, sentimentali. Qualche anno fa, trovandomi al cospetto di “sua maestà”, il vulcano Etna, ho dovuto rinunciare al piacere di raggiugere la vetta, stremato e sconfitto dalla furia degli elementi, con la cima distante poche centinaia di metri, ma nascosta alla mia vista dalla nebbia e dalla pioggia gelida. La ragione, mio malgrado, mi ha suggerito che fosse meglio ripiegare, protetto dal calore del rifugio più vicino. Arrendersi non è sintomo di vigliaccheria o debolezza, è espressione di saggezza, controllo, coscienza dei limiti oltre i quali è meglio non spingersi.

 

Immagino fossero gli stessi pensieri del chirurgo, quando in un ospedale libico, si è trovato di fronte al bivio da prendere: continuare ad operare o arrendersi al problema che si poneva davanti? I dubbi affollavano la mente dell’intera equipe italiana presente al Cardiac Center di Bengasi, mentre mi trovavo in volo verso Tunisi, tappa di passaggio per il mio arrivo in Libia, in balia dei fisiologici ritardi che gli aerei accumulano da questa parte del Mediterraneo. I ragazzi si trovavano lì già da una settimana, decine di bambini operati al cuore in una missione umanitaria che si stava rivelando un successo. Finalmente, smaltiti i miei impegni di lavoro, ero pronto ad unirmi alla squadra.

Arrivo a Bengasi in piena notte, accolto dall’abbraccio di Alì. È la mia quarta volta in Libia, le immagini di alcuni luoghi si legano alle persone, rivedere volti familiari è sempre come tornare a casa. Passaporti, barriere, soldati, polvere, il buio totale della notte di Bengasi.

La hall dell’albergo è deserta, immagino che medici e infermieri siano a letto da un po’, la partenza per l’ospedale è sempre di buon’ora la mattina. Il mio messaggio sul gruppo WhatsApp per conoscere l’orario di partenza, è rimasto stranamente senza risposta.

La voce del muezzin mi risveglia all’alba, scuotendomi dalle poche ore di sonno.

Raggiungo i ragazzi ai tavoli della colazione. Caffè, aromi, preghiere, facce stanche. Cinzia mi invita a sedere accanto a lei, è la prima a darmi la notizia: gli interventi chirurgici sono sospesi, la missione è annullata. La febbre alta ha colpito dei bambini durante la fase post operatoria. Un virus? Un batterio? Pensiamo tutti la stessa cosa, ma esorcizziamo la situazione non pronunciando la possibile causa. 

I rischi in missione

Quello che leggerete in queste righe, è in controtendenza al mio stile, sono argomenti su cui preferisco non soffermarmi ma che qualche volta è necessario raccontare, perché le missioni umanitarie non sono solo sorrisi e gioia, in missione si piange, in missione si muore.

Due bambini non ce l’hanno fatta, un’infezione li ha portati via, un destino crudele, proprio quando la correzione ai loro cuori sembrava avergli ridato un futuro. Un batterio non gli ha dato scampo.

Il rischio, come in ogni disciplina medica, non verrà mai annullato, si muore di medicina anche in Italia, ma il rischio può essere ridotto, e il compito dei medici in missione in alcuni paesi “difficili” è anche questo. Una terza bambina si trova in terapia intensiva in condizioni critiche, il reparto è ancora pieno di piccoli pazienti in degenza post operatoria, per loro è necessario tornare in ospedale.

 

Il pulmino attraversa le macerie della città, dopo anni, anche noi come i locali, ci siamo quasi abituati a quella vista. Muri trafitti, soffitti crollati, bandiere, fucili, militari. Camici, mascherine, respiratori.

I tamponi su tutti noi, escludono la presenza di virus mortali, l’emergenza sembra essere rientrata, tornare nel breve periodo ad operare in sicurezza però non è più possibile. Siamo in attesa di un aereo che ci riporti in Italia, tornare dalla Libia non è così semplice come può essere volare in Europa, ci vorranno giorni per riorganizzare il rientro sui pochi voli disponibili.

Viviamo l’attesa senza la frenesia delle operazioni chirurgiche, senza gli orari impossibili delle piene attività delle missioni. Siamo tutti intorno al lettino di Ashia, bambina di due anni operata al cuore da pochi giorni. L’infezione l’ha colpita ai polmoni, il suono del respiratore accompagna il tempo. Fili, siringhe, fiale saturazione, piastrine, ossigeno. Le giornate sono lente, il traffico della città, le luci delle pizzerie, il cielo color sabbia, l’aria bollente proveniente dal deserto. Non ho la fretta di raccontare, mi viene restituito quel tempo che in Italia a volte dimentico quanto prezioso sia. È così che la resa si trasforma in opportunità. Cantiamo spesso, balliamo tutti, giochiamo, ridiamo con i bambini che a fatica tornano a rimettersi in piedi. La chitarra di Chiara, i peluche di Emanuela, i pasticcini al cioccolato, le foto con le mamme.

Senza la sospensione delle operazioni, forse non avrei vissuto appieno le risate di Michi, i riccioli di Azu, le arrabbiature di Youssef, la lotta di Ashia in terapia intensiva. I ragazzi non l’hanno mai lasciata sola, giorno e notte, dormendo sulle sedie, tenendola aggrappata alla vita.

Sono tra i primi ad avere il biglietto per tornare in Italia. Maryam mi saluta con gli occhi lucidi: “La prossima volta saremo più ospitali”, come se la colpa fosse stata la loro e non di un paese così difficile, una nazione così vicina al di là del mare di casa nostra.

 

Ventiquattro bambini sono tornati a vivere. Ricordo come gli anziani del mio paese, parlando di guerra, raccontassero del sacrificio dei loro amici, dei loro compagni. Ripudio ogni attività bellica come possibile soluzione, e credo che in un conflitto non ci sia mai un vero vincitore, ma come mi hanno insegnato gli anziani, è il sacrificio dei caduti a fare vincere una battaglia.

La difficoltà di dirsi addio

Respiro l’aria pregna di fumo della hall, sui vestiti l’odore di tabacco, l’ultimo saluto ai ragazzi prima di prendere lo zaino e ripartire.  Arrivo in aeroporto tempestato dalle ultime raccomandazioni di Alì, non mi stacca gli occhi di dosso fino a quando non scompaio oltre il controllo dei passaporti. L’aereo per Tunisi è in ritardo, come sempre. Ho bisogno di un caffè, non mi ritrovo addosso contanti, non ho dinari libici, non accettano carte o euro. Quando sto per rinunciare, si avvicina al banco una signora che in lontananza ha seguito la scena, allunga una banconota da cinque e mi rivolge alcune frasi in arabo incorniciate dal velo e da un sorriso, mentre bevo il mio caffè non ho parole per dirle grazie. Nemmeno questa volta riuscirò a lasciare la Libia senza avere gli occhi lucidi.

 

Controlli, timbri, tuniche. Poco prima di prendere la pista polverosa, i passeggeri sfilano davanti una foto appesa al muro dell’unico gate dell’aeroporto di Bengasi. L’ultima immagine a salutare la gente che va via dalla città, non è la foto del mare, di una spiaggia luminosa, di un palazzo arabo, di un giardino verde. I passeggeri vanno via sfilando davanti alla foto di un palazzo crivellato di colpi, i muri crollati, i soffitti bombardati. Perché anche quello ci ricorda che il sacrificio di qualcuno non può essere stato vano.

 

I piaceri o il loro contrario, i dolori, fisici o mentali, appartengono alla sfera intima di ogni individuo e non possono essere pienamente trasmessi. Ci sono delle volte in cui si deve tornare indietro, ma è rimasta la lezione, un piacere anch'essa, di non poter competere con forze di smisurata grandezza.

Io sull’Etna ci sono tornato più volte negli anni, per arrivare in cima mi è servita rincorsa, fatica, tenacia, sudore.  Il chirurgo e tutti i ragazzi torneranno ancora in Libia, ad operare, a cantare, a rimanere svegli la notte, a cercare di dare un futuro, lì dove in mezzo alle macerie recenti delle bombe, la vita sta rinascendo.

 

Sulla pista le carcasse di decine di aerei. Questa volta riparto da solo, così come sono arrivato. È una felice tristezza ad accompagnarmi, capisco quanta forza ci può essere in una resa, e quanto a volte siamo fortunati a vivere qualcosa che rende così difficile dire arrivederci.

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