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Etiopia, la promessa di Natale alle fonti del Nilo

La città dei grattacieli si apre di fronte a noi, costruzioni del futuro circondate da distese di lamiere domestiche. I chicchi verdi di caffè stanno tostando sulla brace, una preparazione lenta, un vero e proprio rito per la popolazione locale, un caffè che ci risveglia dal lungo viaggio.

Una notte in aereo, Addis Abeba si è presentata a noi quando ancora era buio. Abbiamo organizzato tutto in pochi giorni, “Matteo, dobbiamo andare in Etiopia a vedere un ospedale e parlare con il Ministro” il messaggio del dottore Agati, al quale puoi semplicemente rispondere “Dimmi solo quando e ci sono”.

Ci ha accolti Demeke, cardiologo pediatrico fiero del suo mestiere. Lo scorso anno è stato sei mesi in Italia, ha studiato al reparto di cardiochirurgia pediatrica di Taormina, dove il dottore Sasha Agati, primario del centro, è stato il suo maestro. Si è perfezionato prima di tornare a casa e cercare di salvare i bambini cardiopatici nel suo paese. Ma da soli la chirurgia non si fa; quindi la richiesta di una visita al Ministro della salute, la possibile speranza di portare in Africa l’equipe italiana per operare i piccoli.

È il giorno della ricorrenza della Santissima Trinità, le strade sono piene di fedeli copti, le teste coperte da veli bianchi, le candele, l’incenso. La folla. Mi segno con una croce frettolosa mentre attraverso l’ingresso della cattedrale, camminando, senza fermarmi, è Demeke a farmi notare l’accaduto senza che io me ne sia reso conto, un rimprovero gentile. Osservo il resto dei fedeli fermarsi dritti sulla soglia d’ingresso, farsi la croce, procedere.

In Europa la gente in strada ha uno scopo, va in una direzione precisa, ha un ritmo spesso scandito dalla fretta. Nelle grandi città africane in pochi seguono questo comportamento. Il tempo viene restituito alla sua funzione. In tanti non hanno dove andare, si spostano seguendo l’ombra, aspettano il passare delle ore.

 

Un ragazzo passa con un carico di erbe sulla testa, sono ceci, li mangiamo verdi, sbucciando un baccello alla volta, come vuole la tradizione in questo periodo.

Churchill Avenue, qualche decennio fa era la “Via dell’Impero”. Il quartiere di “Piassa” tradisce su quello che resta dell’occupazione italiana del secolo scorso, i fasti caduti di un progetto imperiale fatto di facciate coloniali, il palazzo delle poste, il cancello monumentale dell’università.

La guardia abbassa la corda messa “a protezione” all’ingresso del Ministero. L’odore degli ambienti appena puliti, la bandiera a strisce verde-giallo-rosso: la natura, la speranza, la forza. “Non siamo qui solo per l’amicizia con Demeke, ma perché ci crediamo”, la Ministra Lia Tadesse ascolta le parole di Sasha Agati. Dignitosa, gentile, ordinata. Una stretta di mano e un accordo d’intesa. Il suo paese è pronto ad ospitarci: “Diteci solo cosa vi serve”.

Sembrerebbe facile portare dei medici ad operare in un paese africano, ma non lo è. Perché la chirurgia richiede materiali, attrezzatura, e soprattutto un ambiente capace di ospitare un intervento a cuore aperto in sicurezza, senza rischio di infezioni e pronto a gestire le emergenze. Resta così il nodo principale: vedere e scegliere l’ospedale.

 

L’ingresso del St. Peter’s Hospital è un brulicare di gente. Una moto ape funge da ambulanza. Gli ospedali pubblici sono un impasto di umanità e tragedia, nella quale comunque il popolo etiope mantiene la sua dignità. Hanno un portamento dritto, fiero, anche quando ci mostrano le sale e il reparto, la terapia intensiva, una situazione difficile, un ambiente poco sterile, mancante del necessario. Sasha parla ad un gruppo di studenti riuniti: “A volte sembrerebbe che il destino sia avverso, vorreste scappare dal vostro paese, ma date al destino la possibilità di trovarvi e cambiare le cose, così come sta facendo Demeke”. Si avvicina una ragazza, è un’infermiera, “Mio figlio è deceduto perché non è stato possibile curargli una cardiopatia”, un dotto di Botallo, una malformazione cardiaca che in Italia sarebbe stata corretta subito dopo la nascita. Ha gli occhi lucidi, ma la fierezza di chi sa che può fare qualcosa perché altri bambini abbiano un destino migliore di suo figlio.

Alle fonti del Nilo

Al tramonto ci lasciamo alle spalle la città con i boschetti di eucalipti, il piccolo areoplano ad elica sorvola le montagne verso nord. L’Etiopia centrale è un vasto altipiano solcato da dirupi e valli, montagne di roccia erosa, distese di pianure lisce oltre i tremila metri. Bahir Dar, la città natale di Demeke, posta sulle rive del lago Tana, sorgente del Nilo Azzurro. Le zanzare e l’umidità ci perseguitano tutta la notte. Demeke vuole mostrarci anche l’ospedale di questo villaggio, è un sopralluogo dal quale non ci aspettiamo molto di meglio di quanto visto nella capitale, ma abbiamo capito quanto ci tenga, è qui che ha cominciato i suoi studi, per le strade polverose di questa piccola città.

Tanti giungono nel centro abitato dai villaggi vicini, nel tentativo di trovare qualcosa da mangiare, qualcosa da fare. La periferia è un alternarsi di case di fango essiccato e lamiere. Mandrie di buoi ci attraversano la strada, l’ospedale sorge fuori dal centro abitato, vicino al mercato del bestiame.

Un uomo sta annaffiando un’aiuola di prato inglese “Qui verrà un grande giardino” ci spiega uno dei responsabili del Tibebe Ghion Hospital. Una struttura grande, nuova, nella quale le autorità hanno investito molte risorse, realizzando anche un impianto centralizzato per l’ossigeno. Un lungo giro tra i reparti, macchinari, sale operatorie. Niente può essere lasciato al caso. Incrocio lo sguardo di Sasha fiducioso, annuisce leggermente in segno di assenso. Decine di donne in attesa stanno tostando il loro caffè, preparano il pranzo su fuochi da campo approntati nei cortili. Il reparto di neonatologia è pieno di culle, decine di bambini avvolti nelle copertine. La testa ancora umida degli umori del parto, la piccola Mary è al mondo da pochi minuti, Sasha la prende in braccio, sostenuto dallo sguardo di Demeke. Credo che sia stato in quel momento che si sia deciso tutto, o almeno romanticamente mi piace pensare sia stato così.

 

Ci sarà molto da lavorare nei prossimi mesi per permettere all’equipe italiana di operare in sicurezza, ci saranno da preparare le sale operatorie, testare gli impianti, reperire medicine. Alcuni macchinari verranno spediti dall’Italia grazie alla collaborazione con l’ambasciata a Roma. È lì che torneremo, qui dove nasce il Nilo, un fiume che in questo luogo è un semplice corso d’acqua, ma che acquista grandezza nella sua lunga strada attraverso il Sudan e verso l’Egitto, fino a sfociare nel mediterraneo, il nostro stesso mare.

Promesse all’aroma di caffè

Churchill Avenue è quasi deserta, la sera restituisce alla capitale un aspetto più ordinato. Abbiamo raggiunto casa di Demeke solo per prendere dei documenti, quando invece ci ritroviamo tutta l’intera famiglia schierata davanti la tavola imbandita, una sorpresa quasi commovente. I chicchi verdi di caffè tostano sulla brace, la stanza si riempie di un aroma forte. I granelli neri vengono pestati in un mortaio e la polvere preparata per l’ebollizione. Il caffè servito in tazze senza manico. Un rito di famiglia, l’ultimo abbraccio prima di raggiungere l’aeroporto, un augurio per le imminenti feste natalizie.

 

È stato un tour de force stancante, due giorni che sono sembrati infiniti, ma era una cosa che dovevamo fare, perché ci sono sentimenti che vanno oltre l’amicizia, perché ci sono storie in cui bisogna crederci. E promesse da mantenere.


Articolo scritto per il magazine "Quants - Tempi moderni"