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In arresto per una foto. Ritorno a Bengasi: “Le cicatrici della guerra non passano mai”

Ho due anni e una cicatrice in più, me la sono fatta ad inizio febbraio cadendo dalle scale di casa. Un taglio netto sulla fronte, un solco profondo, per fortuna rimarginato in tempo per la mia seconda partenza per la Libia, due anni dopo la prima volta appunto. In mezzo il coronavirus, frontiere bloccate, viaggi annullati, visti non concessi.

 

A causa delle restrizioni prodotte dalla pandemia, ormai da due anni l’equipe di medici volontari del Centro di Cardiochirurgia Pediatrica di Taormina, è impossibilitata a realizzare missioni umanitarie all’estero. Email, risposte negative, senso di abbandono, consolati contrari, sconforto. Finalmente era tempo di tornare a Bengasi, dovevamo farlo, quantomeno per far capire che non avevamo lasciati soli medici ed infermieri. Per la dottoressa Mariam, che più volte ha chiesto con disperazione perché i medici italiani non volessero tornare in Libia, che ha sfidato consoli ed ambasciate per riportarci lì. Per le centinaia di bambini in attesa di un intervento. Per noi. Viaggio insieme a Sasha, primario del “Bambino Gesù” di Taormina. Le regole per poter partire in tempo di pandemia, sono ancora così tante da non capirci niente, un’avventura tra check-in, tamponi, imbarchi e moduli di cui è difficile capirne il senso.

Bengasi due anni dopo

Cavalli di frisia, muri sparati, carriole, gru, stoffe strappate, fango, bandiere mutilate. Bengasi è un disordine senza senso. Due anni fa si sparava in Libia, Tripoli era sotto attacco, Bengasi ci accolse spettrale e grigia, la città era deserta, pericolosa. Oggi troviamo gru e macerie. Una lenta e confusa ricostruzione sembra essere cominciata. Ruote impolverate, ruspe indaffarate, targhe saltate, pali senza cartelli, incroci senza regole.  

 

È la nostra prima volta in questo ospedale, il Benghazi Cardiac Center, la prima volta dopo la guerra in cui dei medici stranieri vengono a visitare la struttura. Il mio compito è quello di documentare tutto con foto e video, in modo da poter preparare al meglio la logistica per la futura missione. In chirurgia anche la mancanza di un tubo può cambiare le sorti dell’intervento. Fotografo tutto. Materiale medico, cannule, kit operatori, bisturi, sale di terapia intensiva, letti, sondini, siringhe di pompa. Il terzo piano è ancora un cantiere aperto, vi nascerà la nuova degenza per i bambini. Le attività operatorie sono ferme da due anni, l’ospedale sta ripartendo lentamente dopo il conflitto, dopo le ferite delle bombe. La guerra.

Al piano terra oltre 50 bambini aspettano il dottore Sasha, tra i genitori si è sparsa la voce dell’arrivo del medico italiano. Sono giunti a Bengasi da tutta la Libia con ogni mezzo, affrontando anche migliaia di chilometri. Da Tobruk, da Sirte, da Misurata. Il cortile è pieno di auto, intere famiglie bivaccano in attesa di un incontro, la loro unica speranza era sulla via di Bengasi. Occhi velati, caffè, ecocardiogrammi, maglioni di lana, diagnosi, lacrime, sorrisi. Le visite si susseguono senza sosta, a tutti bisogna dare la possibilità di sapere cosa ne sarà dei loro bambini, anche quando le notizie non sono buone. Hamza è bimbo di un anno e mezzo affetto da trasposizione delle grandi arterie, una patologia che di norma viene curata con successo entro poche settimane di vita. Cianotico, labbra scure, respiro affannoso. Per il piccolo ogni settimana in più di vita può essere paradossalmente fatale. Sono corse contro il tempo, sono corse contro le leggi e la burocrazia per cercare di tornare presto in Libia con l’intera equipe ad operare. Molti di questi bambini potrebbero non esserci più al nostro ritorno. La guerra.

 

L’ultimo caso sottoposto all’ attenzione del primario non è un bambino. Un elegante tunica colorata, capelli lunghi, la prima donna senza velo che incontro in ospedale. Fayrouz è una ragazza di trent’anni alla quale anni fa è stato impiantato un pacemaker. Il dispositivo ormai quasi scarico, necessita del cambio delle batterie, purtroppo nell’ospedale cardiaco di Bengasi non esistono più medici in grado di eseguire quest’operazione. Sono tutti andati via, a studiare all’estero, a lavorare dove ci sono strutture e insegnanti, dove esiste la democrazia. Fayrouz era destinata a morire per una batteria scarica. Fayrouz è tornata in vita con un semplice intervento della durata di meno di un’ora. Lo stesso tempo che impiegherebbe un volo diretto dalla Libia all’Italia, dove quest’interventi vengono eseguiti tutti i giorni. La guerra.

In stato di fermo per una foto

Un’ala dell’ospedale è stata pesantemente colpita dai mortai, brandelli di una bandiera resistono scossi dal vento, vetri rotti, cimiteri di cemento. Il minareto di una moschea sfida la gravità avvolto in una gabbia di legno, i disegni dei proiettili, la mezzaluna in cima contrasta con il cielo luminoso del primo pomeriggio. Dei ragazzi stanno giocando a pallone nel parcheggio. Scatto qualche foto all’ospedale a all’area distrutta. Immediatamente, prima di riuscire a tornare sui miei passi, vengo raggiunto da due uomini con la barba lunga, parlano in arabo, dai gesti mi sembra di capire che vogliano sapere chi sono e perché ho fatto la foto, “Camera” è l’unica parola che capisco, indicano di continuo la fotocamera. Mi fanno cenno di seguirli. Raggiungiamo un’area di campagna con alberi scheletrici, si vi trova un prefabbricato da cantiere, due brande sono sistemate all’ingresso, nella seconda stanza un uomo è seduto dietro una scrivana, sembra essere il capo, barba ben curata, un giubbetto sportivo blu scuro. Una radio gracchia incomprensibile.

Un piccolo capannello di uomini si è formato dentro la stanza, qualcuno parla un inglese stentato, sono tutti vestiti con abiti civili anche se mi dicono di essere della polizia: “Hai un problema, un grosso problema”. L’inizio della conservazione non è delle migliori, ma sono sicuro che l’equivoco verrà presto chiarito, per sicurezza dico di essere un dottore italiano in visita al Cardiac Center. Sono tranquillo, mi trovo nel loro stesso ospedale, mostro i video fatti ai bambini, a breve comprenderanno sicuramente la mia buona fede e tutto si risolverà. “Hai un problema, un grosso problema”. La situazione invece si mette male, il capo non vuole sentirne di lasciarmi andare, mi viene presa la fotocamera e il passaporto, per qualche tempo anche il cellulare che poi mi viene restituito.

 

Mi trovo bloccato in mezzo alla campagna in una baracca piena di poliziotti, con il passaporto sequestrato, tecnicamente sono in stato di fermo, in arresto. Chiedo spiegazioni a tutto ciò, mentre ormai il coro comune è che sono nei guai, che passerò la notte lì, la motivazione? Ho fatto la foto ad un reparto dell’ospedale che non potevo fotografare perché area Covid. Sostengo la tesi della totale inesistenza di un cartello di divieto d’accesso, provo a risolvere chiedendo di cancellare la foto, sono disposto anche a lasciare la scheda della fotocamera, ma il capo è irremovibile.

È inutile trattare, chiedo cosi di chiamare qualcuno della direzione del Cardiac Center; la dottoressa Mariam è la persona a cui sono più vicino, ma la loro risposta è negativa, con le donne non parlano, mandano comunque una persona a segnalare il mio fermo. Una tazzina dal manico rotto, sorseggio un the tiepido per un tempo che non saprei quantificare. Il muezzin sta cantando la preghiera della sera quando nel gabbiotto arriva un volto conosciuto, Mftah è il responsabile della sicurezza privata dell’ospedale pediatrico. La discussione in arabo è animata, colgo solo espressioni di negazione da parte del capo. Mftah esce, parla al telefono, rientra, discute, riesce, ritelefona. La scena va avanti per un bel po’, fino a quando una breccia si apre e tirandomi dal braccio mi porta fuori. Ha ottenuto la mia “liberazione”, sto lasciando il gabbiotto della polizia ma mi trovo senza fotocamera e cosa grave senza passaporto: “Per quello abbiamo bisogno di tempo”. Mi accompagna in una stanza e mi ordina di aspettare lì, l’accordo con la polizia è che io non lasci l’ospedale, è sicuro del fatto che fra 10 minuti tornerà con la mia roba.

I minuti si accavallano e diventano ore, la sera ha ormai lasciato il posto alla notte. L’equivoco si è trasformato ormai in una discussione di ripicche, di potere, di famiglie potenti, di altre ancora di più. La diplomazia non centra più nulla, è solo una questione di screzi e di prevaricare di posizioni. I dieci minuti si accumulano fra semi di sesamo e bicchieri di caffè. Manca ormai poco alla mezzanotte quando degli uomini entrano nella stanza insieme a Mftah. A consegnarmi il passaporto insieme alla fotocamera è il capo della polizia di Bengasi in persona. Davanti a tutta la dirigenza dell’ospedale schierata, chiede scusa per quanto successo e ci comunica che il responsabile della sicurezza della polizia interna, il “capo della baracca”, è stato rimosso dall’incarico. La guerra.

Ripartire tra le cicatrici

La Libia è una nazione vicinissima all’Italia, dove le differenze e le problematiche lasciate da anni di guerra sono ancora evidenti. Anni di anarchia hanno lasciato un tessuto sociale dove ostentare il potere è una delle poche forze. La corruzione dilaga. È una terra dove si può morire per un pacemaker scarico, o finire in stato di fermo per una foto. Esistono ben poche regole, fra tutte quella del più forte. Piano piano si sta riscostruendo, qualche negozio ha riacceso le luci, la gente è tornata a guardare il mare, a passeggiare scansando le macerie.

I portici del centro storico erano il fiore all’occhiello della città, decine di negozianti vendevano le loro mercanzie sotto l’ombra della fresca pietra. Oggi sono colonne bucate come formaggio, tetti senza muri, fontane di polvere. La moschea ricostruita spicca in mezzo alle rovine del centro urbano. Non colgo espressioni nel volto di Mariam, qui anche i ricordi sono privi di emozioni: “Quel segno che tua hai sulla fronte, quella cicatrice, io la porto dentro, e non passa mai”. Cumuli di macerie. Due uomini stanno scavando tra la massa informe di detriti, finestre senza muri, vestiti senza balconi, ferro piegato, solai impiccati, scale senza gradini, cicatrici.

Molti anziani sono morti lontano dalle loro case distrutte a Bengasi, sperando di farvi ritorno. Uno di quei due uomini è un figlio tornato oggi a casa dopo la guerra: "Ho trovato il braccialetto d'oro di mia madre e la sua tazza, era qui che doveva essere il letto. Ho immaginato che fosse tornata".

La madre è morta desiderando la casa in cui li ha cresciuti, la casa in cui in ogni suo angolo avevano ricordi.

 

“Nelle guerre gli unici perdenti sono gli esseri umani, gli animali, gli uccelli, gli alberi, le pietre, le case e i ricordi, nessuno dei quali entra nei calcoli di chi la guerra la decide” non riesce a alzare gli occhi Mariam, sta piangendo: “La guerra lascia cicatrici per sempre Matteo, per sempre”. La guerra.