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Ladri di vite. Quella volta che l’acqua andò in su

Stando alle leggi della fisica e della meccanica dei liquidi, sotto la linea dell’equatore, nell’emisfero sud della terra, l’acqua che defluisce da un foro in un recipiente crea un vortice in senso antiorario, al contrario di quanto avviene nell’emisfero boreale. Sfido chiunque, trovandosi dall’altro lato del mondo, adulto o bambino, a non averlo verificato aprendo il rubinetto di un lavandino.

L’ho fatto anch’io. Ma pare che qualcuno sostenga che, in Africa, un giorno l’acqua sia andata persino verso l’alto.

 

Mani che spingono un lettino, sorrisi, pacche sulle spalle, la sala operatoria, il corridoio, la terapia intensiva, infermieri schierati, applausi e abbracci. Ngufu è il ventesimo bambino operato in questa missione. Venti bambini in sei giorni: un record per il General Hospital di Yaoundé. Una grande soddisfazione per il cardiochirurgo Sasha Agati e l’équipe del Centro di Cardiochirurgia Pediatrica del Mediterraneo di Taormina, che ha concluso una settimana intensa in Camerun, grazie alla onlus "Una Voce per Padre Pio" e al suo presidente, Enzo Palumbo.

 

In Africa alcune patologie cardiache, se non trattate chirurgicamente, condannano i piccoli pazienti, perché le strutture locali spesso non sono in grado di affrontare interventi complessi senza il supporto di specialisti provenienti dall’estero.

In Europa si fa diagnosi già in utero, qui, invece, spesso è un miraggio persino fare un’ecografia. Dove la povertà è radicata quanto la polvere rossa che copre le strade, il diritto alla salute resta un sogno.

La sala viene ripulita, i borsoni riempiti con il materiale medico rimasto. Alberto li chiude lentamente, quei gesti che sanno di conclusione. Nell’aria si avverte quel nodo alla gola che solo le partenze sanno lasciare. Tra poche ore saremo su un aereo per l’Italia. Angelo, il ferrista, fuma una sigaretta dopo otto ore accanto al tavolo operatorio. Rita, con occhi stanchi, dà le ultime disposizioni al personale di terapia intensiva. È il momento dei saluti, quelli veri, quelli che non si riescono mai a dire davvero.

Poi, all’improvviso, un pianto disperato. Una madre avanza stringendo il suo bambino sofferente. Nei suoi occhi si legge la paura. Non capiamo subito, ma il gruppo si stringe attorno a lei. Il piccolo arriva dal pronto soccorso, ecocardiogramma in corsa, mani che si muovono rapide, malformazione congenita della valvola mitrale, crisi respiratoria.

È questione di minuti. L’atmosfera cambia, la tensione sale. Sasha spezza la confusione: “In sala operatoria. Subito.”

 

Credo che ogni essere umano, almeno una volta, debba sperimentare la carità vera, quella che ti scava dentro e non ti lascia più. È ciò che ha spinto Enzo Palumbo a creare il progetto Cuori Ribelli, nato per portare chirurgia dove ancora oggi si muore per patologie che altrove si curano da decenni.

Rosie ha percorso centinaia di chilometri dal Gabon, lasciando a casa la sua sorella gemella, spaesata, si guarda intorno confusa, stringendo un guanto in lattice gonfiato su cui qualcuno ha disegnato una faccina sorridente. Affacciata ad una finestra, una nonna sfoglia lentamente una vecchia Bibbia mentre suo nipote è sotto i ferri.

 

Uomini dalla barba incolta, donne con vestiti sgualciti, bambini sporchi e insonnoliti. Ibrahim aspetta di uscire dalla sala operatoria, il suo lettino non è pronto, qui, in terapia intensiva, i familiari devono provvedere persino alle lenzuola. Molti dispositivi e farmaci sono stati portati dall’Italia. Un posto letto costa 20 euro a notte, quando uno stipendio medio non supera i 100 euro al mese. È per questo che il papà di Halle chiede di operarlo subito, per risparmiare giorni di degenza.

L’ospedale sorge su una collina, affacciato su una distesa di lamiere e cemento misto a fango. Sotto di noi vive una città di 12 milioni di persone, sospesa tra speranza e miseria. È il giorno della consegna dei morti all’obitorio. La nostra finestra si affaccia proprio lì. Ogni settimana, si consuma una sorta di teatrale commiato, i ricchi caricano le bare sui Suv, seguiti da bande musicali e fotografi. Poi arrivano i più poveri, con il feretro che sporge dal bagagliaio di un’auto-taxi, o addirittura dentro bare prese in affitto per poi restituirle.

 

Tra quei morti, immagino la piccola Julien. Era in lista, ma il suo intervento non è mai arrivato. In poche ore è peggiorata. Sul viso e sulle braccia, i segni scuri della medicina dello sciamano, riti che ancora oggi, accanto ai progressi della scienza, decidono della vita e della morte.

 

 

Mentre il sole tramonta e i cuori si preparano al ritorno, la vita chiama di nuovo. Non esistono orari, solo battiti da salvare. Concita corre, Danilo riapre gli zaini, Alex prepara le cannule. Il cuore di Dikongue è appeso a un filo. I valori medici non sono compatibili con la vita. Il battito rallenta, Rita lo rianima, si ventila manualmente. Il cuore si arresta, una, due volte. In sala è un caos controllato. Si combatte contro il tempo.

Mi chiedono di rientrare in hotel, il mio ruolo in quel momento è ormai fuori dall’ospedale. Se non si riuscirà a partire tutti, qualcuno dovrà comunque tornare in Italia.

L’odore acre della povertà, un mondo in bianco e nero, circondato dai colori sgargianti del continente africano. Da anni Enzo spende il suo tempo in Africa, oltre alle missioni mediche, ha costruito pozzi, scuole, orfanotrofi, case rifugio. Ha creato una famiglia di volontari, giovani che si lasciano coinvolgere e cambiare. Certo, le difficoltà non mancano. “Ogni giorno - confessa - c’è un momento in cui pensi di mollare. Ma poi accade qualcosa: uno sguardo, un abbraccio, ed è quel piccolo miracolo che ti fa andare avanti.”

 

 

A Ekekom, il villaggio intero è riunito per l’inaugurazione del pozzo. Donne vestite di arcobaleno, anziani con la pelle arata dagli anni. Tamburi, danze, colori. È un giorno storico e nessuno vuole mancare. Fino ad oggi, le donne facevano chilometri a piedi per prendere l’acqua. Ora basta un colpo alla pompa per vedere uscire quel liquido prezioso e fresco.

Siamo madidi di sudore, assaliti dalle zanzare, fiaccati dall’umidità e dal sole cocente dell’equatore. Mai come in quel momento avremmo voluto essere sotto dell’acqua fresca, un’immagine e una necessità che in molti posti dell’Africa è utopia. Oggi è un miracolo che sgorga in profondità da questa terra rossa. Un colpo alla pompa. L’acqua. 

Terra scarlatta, rovente. Una pista carrabile taglia la foresta. La scuola di Douala è sotto un grande albero, la classe è una lavagna poggiata al tronco, il tetto i grandi rami. Impossibile fare lezione quando piove. Matite spuntate, polvere, piedi scalzi. Grembiuli azzurri, libri sulle ginocchia, linguacce. Balli, musica nell’anima. Ho gli occhi pronti ad esplodere di lacrime, dissanguato di emozioni.

Siamo qui con Enzo per mettere la prima pietra del nuovo asilo. Un edificio vero, con muri e tetto.

 

Giuseppe ha portato dei disegni dall’Italia, li hanno realizzati i bimbi della scuola elementare dove lavora come tecnico. Ci sono rappresentati arancini e granite, le case dal tetto a punta. Maria Vera, ha voluto mostrare la sua Sicilia: il sole luminoso e l’Etna. Ha attaccato dietro il foglio una matita fuxia con lo scotch e ha scritto in francese: “Questo è il mio colore preferito, qual è il tuo?”

I bambini africani hanno raccontato allo stesso modo il loro mondo: il pallone di pezza con cui giocano, la casa a forma di capanna, l’albero di mango sotto cui studiano, il cielo africano che abbraccia tutto. Così si è chiuso un cerchio fatto di colori, sogni e sorrisi.

 

Le pareti della nuova scuola elementare hanno già i disegni con cui riempirle.

Ho fatto lo zaino in fretta e sono andato fuori ad aspettare. Il suono della città arriva attutito intorno alle palme dell’hotel. Sono teso, lo stomaco chiuso, la tensione e la malinconia della fine del viaggio. Guardo di continuo il vialetto, in attesa che qualcuno torni dall’ospedale. Fra poche ore sarò in volo per l’Italia, ma sento che non può finire così.

Due ore di intervento l’abbraccio, l’applauso, le lacrime. Il cuore di Dikongue è stato salvato. Se fosse arrivato mezz’ora dopo, i medici italiani sarebbero già stati sulla strada per l’aeroporto. Coincidenze, fede, destino. Sasha e il team hanno fatto l’impossibile. Il padre di Dikongue piange: da oggi il suo bambino porterà anche il nome di Sasha.

Ho accolto i ragazzi commosso, orgoglioso di aver vissuto una settimana insieme a loro. Dovevano essere 20 interventi, sono diventati 21. Ventuno miracoli. 21 bambini che prima dell’arrivo dell’equipe italiana in Camerun, avevano più giorni di vita che quelli ancora da poter vivere.

 

Salvare bambini condannati dalla nascita a una vita brevissima è, per tutti, la missione più importante. “Mi sento un ladro di vite - racconta Enzo, visibilmente commosso - e questa è la cosa di cui vado più orgoglioso. Abbiamo rubato vite alla morte”.

 

Molti di quei bambini oggi possono correre, ridere, vivere, grazie a chi ha lasciato i propri cari in Italia per venire in Africa a donare, senza attendersi nulla in cambio. Carla ha superato la paura di un continente sconosciuto. Rita ha portato caramelle e colori. Mario ha regalato ai bambini africani i giocattoli del figlio: dinosauri e supereroi. Perché l’Africa non è mai solo una missione. L’africa te la porti a casa. Sono coincidenze che diventano vita.

 

L’educazione ricevuta ci insegna a essere solidali. E la solidarietà, come un vortice nel lavandino, una volta che inizia a scorrere, non puoi fermarla. Qualunque sia il verso. L’ho verificato io stesso: medici, infermieri, genitori, tutti hanno aperto il loro rubinetto, donando quello che potevano. Senza differenza di colori.

 

In Africa succedono ancora i miracoli, e capita che, a volte, l’acqua vada anche in su.