“Annulé”. Il tabellone delle partenze dell’aeroporto di Tunisi Cartagine è impietoso, lo guardiamo sconsolati, il volo per Bengasi è stato annullato. Una tempesta di vento e sabbia sta spazzando le coste libiche, l’unico aereo disponibile della compagnia Afryquia, sulla cui condizioni dei velivoli preferiamo non soffermarci, è rimasto bloccato a Ryad, da qui l’impossibilità di raggiungere Tunisi e portarci a Bengasi. La speranza di riuscire ad arrivare in Libia in un unico giorno, è naufragata proprio all’ultima tappa. Una terra così vicina all’Italia, distante meno di un’ora di volo, ma così difficile da raggiungere.
Sembra la trama di un film sconosciuto ma già visto, pieno di imprevisti come lo sono stati gli ultimi due anni. Ventiquattro mesi sono passati dall'ultima nostra missione umanitaria. Due anni di virus, di isolamento, di tamponi, di paura, di frontiere chiuse. Due anni di: "Perché non venite ad aiutarci, perché?". Gli ultimi sono stati giorni complicati, senza nessuna certezza di farcela, senza visto, poi bloccati per due giorni nella capitale tunisina fra timbri e cancellazioni.
“Ma chi ce l’ha fatta fare” sembra leggersi nella faccia di Martina, infermiera al Bambin Gesù di Roma, alla sua prima missione umanitaria. Considerando la destinazione “particolare”, ha preferito non dire a tutti i suoi familiari di questo suo viaggio. “Ma chi ce l’ha fatta fare” raccontano gli occhi di Giuseppe, cardiologo al centro di cardiochirurgia pediatrica di Taormina, lo sguardo oltre il finestrino, mentre la macchina percorre la strada fuori dall’aeroporto di Bengasi, una striscia di asfalto dritta fra carcasse di aerei e case crivellate di colpi.
Nel momento in cui focalizzi le prime immagini di un paese straniero, odori l’aria dell’ospedale, stringi la mano alle mamme, comprendi il motivo che ti ha portato “a fartela fare”. Per le notti insonni prima della partenza, per la giustificabile paura dei familiari a casa, "stai attento mi raccomando". Per le mascherine, per le bandiere appese ai balconi. Per tutti quelli che con le loro donazioni (scuole, associazioni, parrocchie) hanno fatto sì che potessimo riempire di materiale medico i nostri borsoni. Lo fai per i bambini a cui l'esistenza non ha dato il tempo di aspettarci, e per quelli che nelle prossime due settimane di missione abbracceremo.
L’accoglienza e l’ospitalità è a dir poco incredibile. Il cortile del Benghazi Cardiac Center è un via vai di gente senza fine, cinquanta bambini visitati solo nel primo pomeriggio operativo. Il personale della sicurezza è stato costretto a chiudere per qualche ora le porte, si è sparsa la voce dell’arrivo dell’equipe e centinaia di genitori sono venuti ad incontrare il personale medico italiano. Sono tutti in attesa di una visita per i loro figli, di un intervento, di una soluzione.
Una lenta ricostruzione accompagna la Libia verso la ripartenza. Il secondo piano dell’ospedale è stato rimesso interamente a nuovo dopo la guerra. A Bengasi in molti stanno ricostruendo, le insegne luminose sono tornate ad accendersi, le strade a riempirsi. Le porte nuove hanno ancora le etichette attaccate, è una ricostruzione confusa, impacciata, frettolosa, a tratti improvvisata. Le macchie di pittura sui pavimenti, l’odore della biancheria pulita, la plastica sul bordo dei letti nuovi. Gli alberghi hanno riaperto in attesa di ospitare qualcuno. Le macerie sono state spostate per permettere alle auto di parcheggiare, dicono tanto quelle vetture in sosta nel centro città, in mezzo alle case distrutte, indicano che qualcuno è tornato ad abitarci, forse nell’unico angolo di casa rimasto in piedi, ma è tornato. Tra quelle finestre con i vestiti appesi, tra le pareti segnate dai mortai, nuove storie cominciano ad essere vissute.
La fatalità di esserci
Quando arriviamo in ospedale Aziz è visibilmente agitato. Con un rimprovero quasi tenero, riprende Dario per non avere chiuso a chiave la porta della sala operatoria la sera prima. Aziz è un perfusionista, il suo lavoro consiste nell’’utilizzare durante gli interventi la macchina cuore-polmone, uno strumento che sostituendosi al cuore permette di operare i pazienti con il muscolo cardiaco fermo. Lavorava in quella sala anche prima della guerra, durante il periodo dell’occupazione dell’Isis, una mattina trovò la porta sfondata e la macchina scomparsa. Tutto era stato rubato, da quel giorno l’attività dell’ospedale si interruppe per anni. La porta ha ancora i segni dello scasso, segni profondi che i libici portano dentro come ferite. Gli adulti non ne vogliono parlare della guerra, preferiscono raccontare come fosse bella la loro città prima della devastazione, e lo fanno ogni volta accompagnandoci in un surreale tour fra le buche delle bombe e scheletri di cemento. Le case distrutte si affacciano su un mare azzurrissimo.
Se guardiamo oltre l'orizzonte, sembra quasi di scorgere l’Italia. È lì che Bengasi e i libici parlano, fra le giostre con la vista sulle macerie, le bandiere colorate della squadra di calcio locale, gli anziani a prendere il sole sui muretti, le famiglie a passeggio, i bambini a rincorrere un pallone di plastica. Una normalità che significa futuro.
Il sole è scivolato via lasciando alla notte i pensieri dei genitori in attesa. I corridoi sono tornati vuoti dopo il caos del giorno. Una coppia aspetta composta che la loro figlia esca dalla sala operatoria. Jada è una bambina di tre anni affetta da canale atrioventricolare, un deficit di formazione che normalmente viene operato con successo nei primi mesi di vita. Nessun chirurgo giunto a Bengasi negli ultimi due anni, si è assunto la responsabilità di portare la piccola in sala operatoria, Jada era un caso che si preferiva non operare, il rischio alto di insuccesso portava al netto rifiuto.
La tunica scura avvolge la madre nel silenzio della notte, è l’ultimo intervento di giornata, entro ed esco dalla sala operatoria, alle domande del padre posso solo rispondere di aspettare, la vicinanza di qualcuno di noi è per loro fondamentale.
Sono le 22 quando il chirurgo esce dalla sala, la gestualità delle mani supera ogni barriera linguistica, Sasha comunica che l’operazione si è conclusa con successo. La madre scoppia in un pianto liberatorio, le lacrime scendono oltre il velo, bagnando il pavimento sopra il quale si è inginocchiata. Il racconto che segue è commovente nella sua drammaticità. Non essendo riusciti ad operare la figlia in Libia, e non potendo permettersi un viaggio all’estero, avevano deciso di vendere la loro casa e avviare le procedure per tentare il tutto per tutto in Europa. Sarebbero rimasti senza casa per “tentare” di salvare la loro unica figlia. Quando hanno saputo che a Bengasi sarebbero venuti gli italiani, hanno deciso di rimandare la vendita. Il destino ha voluto che la loro vita incrociasse il cammino degli italiani, la strada di Sasha Agati e della sua equipe. Una vita salvata è un insieme di varie combinazioni, di rischi e responsabilità, sono incroci di fatalità, ma è andando in missione, essendo presenti, che si dà al destino la possibilità di trovarci.
Oltre il mestiere
La poca luce filtra dalle tende chiuse. Non riesco ad alzarmi dal letto, la mente confusa, i muscoli e le ossa indolenzite. Sono in preda alla febbre alta da due giorni, il mal di testa mi rende la stanza ovattata. L’unico elemento con il quale realizzo che il tempo fuori sta scorrendo, è la voce del muezzin, ad intervalli di ore ha scandito la mia giornata nella quale ho visto la luce del giorno arrivare ed andare via dalla stessa finestra. Come me, anche altri ragazzi del gruppo sono stati con la febbre alta, tutti hanno avuto la forza di rialzarsi e tornare in ospedale. Ci sono tanti bambini da operare, e le due settimane di missione stanno ormai per finire. Riesco a mettermi in piedi intorno alle 23 per andare a mangiare qualcosa, nella hall incontro i ragazzi appena rientrati. Stanchi, tirati, sfiniti. In missione si è tutti bravi alle 9 del mattino, è dalle 9 della sera che si vede come sei fatto veramente. L’unico che si è potuto permettere di rimanere a letto senza creare scompensi sono stato io, in fondo io scrivo solamente. Faccio foto e racconto. Scrivo perché ci sono storie che hanno la necessità di essere conosciute.
Una cosa hanno in comune i reporter e il personale medico in missione: se non sei un uomo buono non puoi fare questo mestiere, o meglio non lo puoi fare nella maniera giusta. Devi comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro drammi. All’inizio si è una squadra di professionisti al lavoro, dopo si diventa amici e fratelli.
Molti di noi prima di partire, provavano una comprensibile paura. I media per anni di hanno raccontato della Libia con immagini fatte solo di spari, morte e pericolo, ed è quello che a noi tutti è arrivato. Noi abbiamo visto che in Libia oggi c’è soprattutto vita, e abbiamo il compito di testimoniarlo.
Ma perché è necessario raccontare storie come questa? A volte per far capire alla gente quanto è fortunata, a volte perché il racconto ha una sua volontà, che passa da un orecchio all’altro, e arriva a destinazione.
Martina racconterà che la Libia non è solo come la vediamo ai telegiornali, Dario ricorderà che fra colleghi esiste l’aiuto e la comprensione, Aziz cancellerà parte delle sue ferite, Mirko spiegherà ai suoi tre figli che oltre il Mediterraneo ci sono tanti bambini che giocano a pallone, Jada scriverà che dei medici venuti dall’altro lato del mare, le hanno ridato un futuro. A lei come ad altri trenta bambini.
A volte l’uomo compie delle azioni coraggiose, perché diventino efficaci devono essere raccontate. Di tanto in tanto si verificano dei miracoli, e noi conosciamo i miracoli grazie ai racconti.
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