Dal verso giusto. I miei 100 km sul Cammino di Santiago

Promontori tormentati dal vento, spiagge avvolte da spruzzi e nebbia. Il mormorio della risacca che opera senza riposo il suo complotto millenario contro le terre, il mare stropicciato dalle dite nervose del vento, un merletto di fine schiuma intono alle caviglie. L’acqua fredda mi bagna i piedi dando un po’ di ristoro alla carne provata dai chilometri di strada. La corrente dell’oceano spinge le conchiglie contro le mie gambe, la morbida sabbia bianca. Davanti solo mare, alle spalle la strada percorsa, un sentiero. Il sentiero del Cammino di Santiago de Compostela.

 

Perché? È la domanda che si sono posti tutti quando ho detto che sarei andato a Santiago a piedi, l’espressione prima di stupore e poi di diffidenza, gli sembrerai un fanatico, un nullafacente. La metà mi ha detto che non era il caso, l’altra metà l’ha pensato senza dirlo.

È l’estate 2020, l’anno di una pandemia mondiale, il Covid ci ha fermati per mesi, costretti in casa, una situazione mai vista e vissuta. Ho bisogno di cercare di spezzare il ciclo delle mie notti senza sonno e piene di incubi. Avevo bisogno di partire. Sento valentina, campagna di tanti viaggi, ci interroghiamo su quale possa essere un viaggio “sicuro” dal Covid, al progetto si unisce Francesco, “fratello” di mille avventure. Un viaggio lontano dalle città, pochi spostamenti affollati, meglio in natura: Santiago! Questo è l’anno per fare finalmente il cammino. Mentre i tg parlano dell’aumento dei contagi, facciamo la lista dell’occorrente, pianifichiamo le tappe e chiudiamo lo zaino.

C’è chi lo sogna e lo prepara per una vita intera studiando ogni tappa, preparando ogni passo, poi c’è chi decide di partire all’improvviso ed in pochi giorni prepara tutto lasciandosi trasportare dalle emozioni. Compostela non è solo un pellegrinaggio cristiano, è qualcosa di più. In verità gli si può attribuire tutto quello che si vuole. Molti sono attratti dalla privazione, dall’emulazione, dalla libertà social, dall’avventura. Il cammino-pellegrinaggio che è il viaggio per definizione, è come una tessera che non può mancare nel curriculum di un viaggiatore, questo è uno dei miei motivi.

Gli aeroporti sono già una novità: mascherina, salite contingentate, distanziamento, amuchina. I compagni di viaggio sono sempre due, timore ed entusiasmo, sempre. Se uno dei due manca, hai preso la decisione sbagliata. Ed è così che partiamo.

 

Decidiamo di percorrere gli ultimi 100 chilometri, per mancanza di tempo principalmente, la distanza minima per poter certificare di aver percorso il cammino, il chilometraggio base per ottenere la pergamena, la “compostela” del pellegrino. 

1^ tappa: Sarria – Portomarin 22,4 km

A sera tardi arriviamo in taxi a Sarria, ritiriamo la credenziale, una sorta di libriccino che verrà timbrato ad ogni tappa. La schiuma in fondo alla bottiglia mi accompagna in un sonno profondo senza sogni ne incubi.

Al mattino le strade sono deserte, i bar chiusi. Una nebbia leggera ci saluta all’uscita dal paese, finalmente siamo sui passi del cammino.

I pellegrini si comincia a vederli di spalle con la conchiglia appesa allo zaino. Due ragazzi camminano davanti a noi, si avvicinano, si prendono per mano, li superiamo “buon camino”, è l’augurio che tutti si lanciano incrociando dei pellegrini sulla strada, tutti salutano così, tutti, quello è stato il mio primo saluto, con quella coppia che percorreva il sentiero mano nella mano come fosse una passeggiata.  Il cammino ha l’effetto di far dimenticare le ragioni che hanno indotto a percorrerlo, alla confusione e ai pensieri che ci hanno spinto a partire, si sostituisce il regolare e necessario movimento del camminare. Si è partiti e basta. Nei primi istanti di marcia non si può ancora concepire cosa sarà il cammino. All’inizio si pensa tanto.

L’odore del fieno umido, il tanfo del concime nei campi, degli animali, dei fiori. A metà mattinata il caldo diventa insopportabile, il sole brucia.

L’ultimo tratto della tappa è una discesa costante verso Portomarin. Sono parecchio indolenzito, veramente stanco. Raggiungiamo il fiume. Il paese nacque in epoca medioevale sul corso d’acqua. Negli anni ’60, a causa della costruzione di una diga, fu necessario spostare l’abitato più a monte, le costruzioni furono letteralmente smontate e trasferite. Su un lato della chiesa sono ancora visibili i numeri scritti sulle pietre durante lo "smontaggio" dell'edificio e che servivano a permetterne la corretta ricostruzione. Attraversiamo il ponte e andiamo a mangiare trascinandoci nel primo locale aperto, siamo veramente provati.

 

A quelli latitudini il sole tramonta alle 23, la sera il sonno arriva presto, Il corpo indolenzito non ci dà il tempo di vederlo. 

 

2^ tappa: Portomarin – Palas de Rei 25 km

La sveglia suona nel buio della stanza, abbiamo deciso di anticipare la partenza per non arrivare a fare gli ultimi chilometri sotto il sole cocente. La luce del giorno comincia a filtrare tra la nebbia e i rami di un fitto bosco, l’aria è fredda, piove, indossiamo le mantelline e copriamo gli zaini. Sotto le raffiche di vento e la pioggia, il camminatore conosce in quel momento di intemperie, più emozioni che davanti ai colori di un giorno di sole.

Dopo un paio di chilometri Valentina sembra non farcela già più, ha male ai piedi, rallenta, ci prega di lasciarla camminare con il suo passo da sola. L’imprevisto mette nervosismo a tutti. Vado avanti con la mia andatura per non perdere il ritmo, ogni tanto la aspetto cercando di capire le sue condizioni, sono un po’ preoccupato. A circa tre quarti di strada mi fermo lungamente ad aspettare, la vedo arrivare insieme ad un ragazzo, si presenta, Nicolò, 16 anni, viene da Pisa, sangue spagnolo e siciliano, è partito dal Alto do Poio e sta percorrendo il cammino da solo, sostiene di essere partito per noia. Credo che quello sia stato il primo miracolo incontrato sul cammino, il primo miracolo per Valentina, si sono incrociati e si sono messi a parlare, lei era sul punto di mollare, avere quella nuova compagnia accanto l’ha spinta oltre i limiti fisici fino all’arrivo della seconda tappa. Palas dei Rei, un grazioso paesino medioevale fra i boschi.

 

Nonostante io non faccia una vita sedentaria, mi rendo conto come i cammini non siano una semplice passeggiata. Arriva il male sotto i piedi, alle spalle, i crampi, la fatica, il sudore, la fame, i polpacci che tirano.  Di certo non ci si alza dal divano la sera e si parte per il cammino la mattina.

Ho visto gente zoppicare, finire la tappa solo con la forza di volontà, quando il fisico non ce la fa più ti porta avanti solo la testa.

Andiamo in farmacia per comprare degli antiinfiammatori. Valentina è crollata a letto dalla stanchezza, ha una caviglia gonfia e non riesce a poggiare il piede a terra. Nei paesi situati lungo il cammino è pieno di farmacie, sono affollati di persone che come prima cosa si tolgono le scarpe e mostrano i piedi straziati. Anche il fisico più sportivo che affronta il cammino può venire sorpreso e sentire il corpo indolenzito.

Dalla pianta dei piedi alle reni, dove lo zaino pesa, dal cranio alle spalle segate dalle cinghie. Dopo cena si vedono persone girare in ciabatte o infradito, è da questo che ci si riconosce il pellegrino.

 

 

Laviamo i vestiti e li mettiamo ad asciugare. I pochi indumenti di cui siamo forniti impongono dei bucati quotidiani, all’arrivo della tappa si lava tutto, si mette ad asciugare e se la mattina è ancora umido si appende allo zaino e si parte. I riti quotidiani.

3^ tappa: Palas de Rei – Arzùa 28,8 km

Ogni mattina ci si infila le scarpe come fosse una divisa. La stanchezza obbedisce alla vestizione. Che senso ha fare tutta quella strada a piedi? La risposta non c’è, il vento freddo del mattino spazza il marciapiede deserto. Assestiamo lo zaino e partiamo. Sembra già più pesante che alla partenza. Tutto ciò di cui possiamo predisporre lungo il cammino e nello zaino, ma si deve decidere cosa è veramente necessario e cosa no. Penso che forse avrei potuto lasciare a casa qualcosa, magari il portasapone, o una maglietta.

È ancora buio quando lasciamo l’ostello. Si è unito a noi Nicolò, Valentina invece è rimasta a letto, raggiungerà Arzua in taxi, la caviglia era gonfia e scura, impossibile camminarci. La tappa del giorno sarà la più lunga, sono le 6:30 del 25 luglio, festa liturgica di San Giacomo, il santo al cui cospetto ci si ritrova alla fine di questo viaggio, io e tutti quelli che come me lo stanno facendo, qualunque sia il motivo per cui ci si è messi in marcia, da qualunque posto si sia partiti, l’arrivo è comune per tutti.  Il cammino è un viaggio che nasce come pellegrinaggio religioso, quindi nonostante si è liberi di gestire il viaggio come meglio si crede, esistono dei momenti e dei comportamenti non scritti che ricalcano quelli degli antichi giacomei.

La mattina presto non ho molta voglia di parlare, Nicolò invece è sempre una macchinetta. Ci siamo incontrati appena ieri con questo ragazzo, questa mattina ci siamo dati appuntamento per riprendere insieme la strada. Dopo qualche km comincia un lungo discorso, cercando di non essere invadente: “Se non ti crea disturbo, posso camminare con voi fino a Santiago?”. La strada è la stessa, non posso che essere felice di avere un nuovo compagno di viaggio, convinto che ognuno saprà trovare anche il suo tempo quando necessario, ci scopriremo entrambi strada facendo. L’ombra fresca mattutina ha lasciato posto alla calura, il percorso è fatto di salite e discese che mettono a dura prova i muscoli delle gambe. Per distogliere il pensiero dalla fatica parliamo di un po’ di tutto, con sorpresa riesco a fare con Nicolò discorsi che di solito è difficile fare con un sedicenne: politica, fotografia, musica. Un gruppo di ragazzi ci supera chiassoso, scambiamo qualche parola con chiunque incontriamo.

Al di là dell’orgoglio di aver fatto più strada, realmente si percepisce il fatto che chi viene da più lontano ha fatto uno sforzo maggiore sia fisico sia mentale. Ecco la ragione per cui, andando verso Santiago, l’essenziale non è il punto d’arrivo, comune a tutti, ma il punto di partenza. E quest’ultimo a fissare la sottile gerarchia e il rispetto che si instaura fra i pellegrini, per questo la prima domanda è: “Da dove sei partito?”, non il “dove vai”, la risposta è evidente, no il nome, quello lo chiederai dopo un paio di km, ma il dove sei partito ti permette di portare rispetto e di sapere con chi hai a che fare, a patto che l’interessato più camminato non se la tiri troppo.

Porto rispetto per Teresa e Gonzalo, due fidanzati spagnoli partiti da molto prima di me, li incontriamo e incrociamo spesso fin dalla prima tappa, camminiamo insieme per un po’, poi non li vediamo, o li rivediamo la sera. Teresa cammina ciondolante, ha le vesciche, le gambe infiammate, cammina con una forza di volontà incredibile. Sul cammino il rispetto è anche il tempo che si è passato a mettere ogni giorno un piede dietro l’altro. E passo dopo passo, ormai con il sole infuocato oltre lo zenith, arriviamo ad Arzùa.

Raggiungiamo Valentina all’ostello, ha comprato dei bastoni da trekking per sorreggersi e provare a camminare, il problema è ancora abbastanza evidente.

 

Una delle particolarità del cammino, è quella di offrire al pellegrino, quali che siano le sue motivazioni, dei momenti religiosi inaspettati. È il giorno di San Giacomo, la piccola statua dell’apostolo è illuminata da una cornice di candele, bastone in mano e conchiglia, la tradizione cattolica lo rappresenta così. Un’atmosfera intima accompagna i fedeli durante la funzione, la partecipazione dei presenti è sincera. 

4^ tappa: Arzùa – Pedrouzo 19,1 km

Anche oggi partiamo senza Valentina, la caviglia continua a farle male. Affrontiamo la tappa più breve del nostro cammino. Man mano che Santiago si avvicina, si incontra un po’ di gente in più per strada. Ogni tappa è fatta di incontri, di saluti fugaci, di figure che vedrai una volta sola di passaggio ed altri che ritroverai alla fine. C’è chi tira dritto, chi rallenta, chi si ferma, chi è scontroso, chi se la ride. È come vivere un cammino della vita reale. Puoi decidere di fare la strada da solo e ritrovarti qualcuno accanto la curva dopo. Il cammino non è inoffensivo. È una forza. S’impone, s’impossessa, a volte è violento. Durante i primi chilometri giornalieri cammino per un po’ da solo, ritrovandomi a pensare alla mia adolescenza. Tutte le marachelle quando ho deluso un genitore, gli errori commessi da adulto. Il cammino a tratti ti spoglia, hai la sensazione di sentire presenze tra gli alberi.

Il pensiero si insinua nell’intimità spinto dalla lentezza. Escono fuori i ricordi, i progetti, le idee. Ci si ritrova a ridere da soli senza accorgersene, e un attimo dopo senti le lacrime calde bagnare il viso. Il cammino ha la forza di farti tornare al muretto, al banco di scuola, alla culla. Ognuno ha i suoi pensieri. C’è chi si guarda ogni tanto indietro, c’è chi non abbassa mai la testa. Ci sono stati dei momenti in cui mio malgrado ho dovuto aspettare, altri sono andato avanti senza guardare nessuno. Il cammino è fatto di persone e personaggi, di coincidenze.

Appena uscito da un fitto bosco, mi ritrovo una persona seduta sul bordo della strada, libri a terra, un incenso accesso. Ci guardiamo e proseguo, quella figura non mi ispirava simpatia, per qualche metro sento la sensazione di doverci parlare, ho fatto una curva e sono tornato indietro. Il volto dell’uomo era coperto da una barba grigia, cespugliosa come il bosco che ci circondava. Walter Ipsale, nato in Argentina da nonni siciliani, emigrati in cerca di fortuna, partiti da Galati Mamertino, provincia di Messina. Il protocollo imponeva la distanza, ci siamo abbracciati.

Walter vive sui sentieri del cammino da anni, a quelle latitudini ha trovato la sua pace, vivendo di offerte e dei frutti della natura. Rinfrancato da un incontro inaspettato mi rimetto in marcia, ogni tanto rallento e aspetto che Francesco compaia alla mia vista da lontano, solo per assicurarmi che vada tutto bene. È sofferente nella sua camminata. Il pellegrino non cammina sempre con il sorriso, fa smorfie di dolore, soffre, impreca, si lamenta, e sullo sfondo di queste miserie accoglie il piacere di un panorama splendido, di un momento di commozione, di un incontro fraterno.

La tappa che doveva essere quasi una passeggiata, invece è diventata un calvario, Francesco procede a passo lentissimo. Il peso dello zaino gli ha infiammato le ginocchia, le scarpe nuove gli hanno fatto venire le vesciche, ma non ha intenzione di mollare.

 

Sul sagrato di una chiesa incontriamo delle signore italiane. Giungiamo a Pedrouzo per l’ora di pranzo, la cittadina è una via di passaggio continuo, un centro moderno ingranditosi per accogliere i pellegrini.

All’albergue, il proprietario ci dice che siamo i primi stranieri a passare dopo la pandemia, ci sono stati solo spagnoli, la presenza in generale è molto ridotta, parla addirittura del 10 % delle persone rispetto agli altri anni.

Una ragazza italiana al bar si vanta di essere partita da Saint-Jean-Pied-de-Port, 800 km. Colgo le sue parole con un po’ di fastidio, il rispetto è come fai il cammino, non la lunghezza. Sono le motivazioni e il bagaglio culturale che ti porti addosso a fare il camminatore, non certo la distanza.

 

Il cammino non si misura dai giorni di marcia, ma da quello che lascia dentro. 

5^ tappa: Pedrouzo – Santiago de Compostela 20 km

Dormo un sonno confuso, la sveglia suona molto prima rispetto alle altre mattine. Valentina ha deciso di tentarci, a Santiago ci vuole arrivare a piedi. La sera prima ha provato a camminare con l’aiuto dei bastoni, può farcela. Sono preoccupato ma comprendo il suo desiderio, e non posso che appoggiarla. Partiamo alle 5:30, anticipiamo i tempi, farò la tappa accanto a lei e con la sua andatura. I primi passi sono zoppicanti, l’umidità gela le gambe. All’uscita di un fitto bosco cogliamo i primi raggi, sta sorgendo l’ultimo sole del mio cammino. Un cavallo, le conchiglie sui segnali, un gruppo di case in pietra. Ci raggiungono Francesco e Nicolò, facciamo colazione.

Il gruppo dopo due giorni è di nuovo compatto, vogliamo arrivare così fino alla meta finale

Dalla cima del Monte Gozo si riescono a vedere in lontananza le guglie della cattedrale, gli ultimi chilometri sono un susseguirsi di grigi capannoni periferici, la natura ha lasciato posto alla città.

Entriamo in mezzo alle case e al traffico, i cittadini sembra non ci vedano nemmeno, sono abituati ad incontrare pellegrini stanchi e sporchi. Tutti in città indossano la mascherina, anziani e bambini. La presenza del santo apostolo in queste estremità, secondo molti storici è letteralmente incompressibile, probabilmente una leggenda che però ha portato a questa terra un’enorme fortuna. Santiago è considerata la terza città santa del mondo cristiano dopo Gerusalemme e Roma. Una religione che non si percepisce nell’aria, tranne una volta giunti a pochi metri ormai dalla cattedrale. Il pellegrino porta la sua sofferenza, il suo tempo, il suo sforzo, milioni di passi fatti con ogni tempo, con il corpo dolente.

Il suono di una cornamusa accompagna il nostro ingresso in piazza Obradorio. Il mio ultimo metro, quando arrivato realizzi che Santiago non è soltanto una destinazione. Ci abbracciamo, e cosi fanno tutti i compagni di viaggio una volta giunti in piazza. C’è chi piange, chi ride in maniera isterica. Un periodo particolare fatto di mascherine e distanziamento, l’abbraccio era diventato quasi un desiderio, nei mesi chiusi in casa era diventato una necessità. Quell’arrivo è anche un calcio al covid, un pensiero a ripartire, alle sere a cena da solo a tavola con la bottiglia del vino, per quei giorni chiusi in casa, ai camion con le bare, alle persone che non ce l’hanno fatta, alla voglia di tornare in mezzo alla gente.

Era una sfida, e l’abbiamo conclusa felicemente. Anche Valentina ce l’ha fatta, in un’ultima tappa piegata dal dolore, è riuscita ad arrivare alla meta solo con la mente, ha quasi camminato con quella.

Ho ancora un pensiero per Dario, messinese di Forza d’Agrò. Non l’ho mai conosciuto di persona ma ricordo che mi colpì tanto la sua storia. Aveva fatto amicizia con degli spagnoli in Erasmus a Messina, una volta ripartiti aveva deciso di andare a trovarli. Il suo viaggio è finito su un treno deragliato poco prima di giungere a Santiago. Rimasi turbato da quell’incidente, era il luglio 2013, a gennaio di quello stesso anno ero stato in Galizia a trovare dei ragazzi spagnoli conosciuti a Messina, e in quell’occasione avevo anche visitato Santiago. Ho conosciuto lo zio di Dario alcuni anni dopo, non sapendo che fosse suo nipote. Mi ha telefonato quando ha visto le mie foto, sapendo da facebook che mi trovavo sul cammino.

 

Avevo promesso una semplice preghiera in ricordo di Dario, l’ho portata dentro la cattedrale, sulla tomba di San Giacomo, per Dario che non l’ha potuto fare.

La fine è l’inizio

Con Nicolò è giunto il momento dei saluti, un incontro genuino, chilometri allo stesso passo cantando i Modena City Rambles.

Noi, io, Francesco e Valentina, chiuderemo la nostra esperienza spagnola con l’ultimo rito del pellegrino, sul mare, dove comincia l’oceano.

Finisterre, la fine della terra, un ammasso roccioso sull'Atlantico, un luogo che per molto tempo è stato considerato la fine del mondo conosciuto.

Il vento incessante, il grido dei gabbiani, il faro presso il quale è presente il cippo con il chilometro zero del Cammino di Santiago.

La tradizione vuole che i pellegrini qui brucino un indumento indossato durante il cammino, e infine raccolgano una delle conchiglie che si trovano su una spiaggia a prova dell'avvenuto pellegrinaggio. La conchiglia è il simbolo del camminatore perché rappresenta un insieme di vie che convergono tutte nella stessa direzione.

 

Siamo ai giudizi e ai bilanci finali. Dal punto turistico devo dire che ho percorso cammini più belli, ovviamente al momento posso parlare degli ultimi 100 km, quelli percorsi da me. Sono certo che nei tratti più lunghi si incontreranno molte meraviglie e paesaggi. A Santiago rispetto ad altri posti è il mito ad attrarre. Il sapere di mettere i piedi sulle orme di milioni di altri piedi che hanno percorso lo stesso tragitto per secoli. La leggenda ti fa partire, la fede ti fa camminare, ma soprattutto quello che lo rende unico è la gente. Al contrario di altri cammini fatti in Sicilia, nei quali si partiva e si arrivava con le stesse persone accanto, senza incontrare altri camminatori, qui il bello è stato il mescolarsi con lo sconosciuto, lo scambio di sofferenza e sorrisi.

Una strada segnata da seguire, uguale per tutti. Il cammino geografico è una via. Sale, scende, è fangoso, mette sete, è mal segnalato, costeggia strade, passa per boschi, una sfida al corpo e alla mente. Lo paragono ad una rappresentazione della vita: molte volte cammini da solo, affronti i problemi. Ti ritrovi accanto delle persone per molto tempo, altre solo per un breve tragitto. C’è chi corre, chi si vanta, chi cammina a testa bassa.

Non si è mai da soli e mai in compagnia, puoi partire in gruppo ma andare da solo o viceversa. Sono l’insieme di coincidenze a decidere come lo farai. Il cammino è umile, discreto, accarezza le case cadenti, incalza il moderno. Può avere orgoglio, fierezza, presunzione, memoria.

Il cammino è un’esperienza che possono fare tutti, indipendentemente dalle motivazioni sarà un viaggio non solo fisico, ma anche alla scoperta di te stesso. Un viaggio in cui potrai contare solo sulle tue forse, un’esperienza che insegna il valore dell’essenziale e del tempo. A volte oltre i limiti, aiutando gli altri ma accogliendo anche il loro aiuto.

 

Perché ho fatto il cammino? L’ho fatto per le sveglie all'alba, le croci sulle colline, le facce stanche, lo zaino ogni giorno più pesante. Le piante dei piedi che fanno male, le braccia bruciate, le spalle doloranti, le ginocchia in fiamme. I saluti gridati e quelli sussurrati, i pensieri in solitaria, la gente incrociata per un secondo e quella ritrovata accanto per chilometri. Le storie ascoltate e quelle raccontate. L'odore del fieno, i campi concimati, le mucche, le campane, le magliette mozzicate da mollette, la pioggia, i ponti, la polvere, il fango, le lumache, i panni appesi ai fili ad asciugare. I muri di pietra, gli orti miserevoli, i cani schizofrenici, gli horreos, i granai sopraelevati. I villaggi dove il gallo ancora canta.

 

“Eri solo? Quanto sei stato?”. Al ritorno a casa la frase più gettonata sarà: “Me lo potevi dire! Io ci sono sempre voluto andare”. Riempirei un pullman con tutti quelli che mi hanno chiesto di fargli sapere quando riandrò.

Non sono una persona credente, o meglio, credo che non si tutto qui ma non credo a tutto quello che c’è qui, ho una visione diversa che a volte non combacia con quella che è il parere e sapere di alcuni rappresentanti della religione cattolica. Non sono partito con aspirazioni da santone e il cammino non mi ha cambiato la vita. Ha avuto la forza di farmi pensare e riflettere, quello sì. Forse perché si è spesso da soli a pensare lentamente, o per il senso di suggestione della storia che quelle strade, quelle contrade emanano.

In quei boschi ho pianto da solo, ho riso con sconosciuti. Ho pensato a quel rapporto con la mia famiglia che non ho mai avuto, alle liti fra i miei fin da quando ero piccolo, al tipo di papà che avrei voluto, al figlio e fratello che non sono stato. Molte cose nella vita mi hanno influenzato ed allontanato da quello che potevo essere, dalle scelte migliori che potevo fare. Percorrere il cammino in quella fase della mia vita, completamente cambiata nel giro di qualche mese, mi ha fatto pensare. La verità è che forse siamo tutti soli. Con i propri drammi, le ansie, la propria disperazione.  Pensare e pretendere di bastare a sé stessi è una fregatura.

Per qualche giorno ho lasciato i miei incubi sotto le stelle, nel sudore sulla schiena. Credo che alla fine il cammino confidi a tutti la sua verità.

L’ultimo giorno del viaggio, l’ultima spiaggia possibile. Gli scarponcini poggiati sulla sabbia bianca. L’acqua fredda mi bagnava i piedi dando un po’ di ristoro alla carne provata dai chilometri percorsi. Le onde dell’oceano giocavano a danzare con migliaia di conchiglie. Ne ho presa una in mano e finalmente l’ho vista. Le linee. Le strade segnate su quel guscio andavano tutte in direzioni diverse. Le scelte, le strade della vita. A volte ci sentiamo distanti dalle cose importanti, sbagliamo, seguiamo strade che ci portano lontano dagli affetti e dai valori. Il cammino lo fai da solo o con chi scegli di farlo, è sempre così anche nella vita.

 

Le strade convergono solo se sei disposto ad affrontarle nella direzione giusta. Sta a noi scegliere da quale verso guardarle, basta solo decidere di girare la conchiglia dal verso giusto.

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