Lampedusa, un “tavolone” sospeso tra l'Africa e L'Europa

Tampone, entrata unica, scanner temperatura, autocertificazione, mascherina. L’aeroporto di Catania è pressoché deserto.

 

L’unica persona oltre me presente al gate, ha preso posto accanto al mio sedile: “Non ho fatto vaccino, sto rientrando per preparare la stagione”, siede proprio su un cartello con una X in rosso che ammonisce i passeggeri a lasciare libero il posto per tenere il distanziamento, “Ormai sull’isola sono più loro che noi”, commenta così l’escalation di sbarchi di migranti degli ultimi giorni, il flusso è ripreso, complice il mare calmo e la bella stagione ormai alle porte. Varco il gate dopo 10 mesi dal mio ultimo volo, il piccolo aereo ad elica conta una decina di passeggeri. Siamo diretti a Lampedusa.

Barcollante, instabile, malferma. Chi da ragazzo ha lavorato come “manovale” in un cantiere, sarà passato tantissime volte sul cosiddetto “tavolone”: un’asse di carpenteria di circa 4 metri poggiata ai due estremi per superare un fossato, uno scavo. Serviva a portare il materiale in maniera più veloce sul luogo di costruzione. Traballava sotto una carriola piena di cemento, si piegava al passaggio di un carico di mattoni. Un ponte sospeso e temporaneo, un passaggio di fortuna, fondamentale però per portare avanti i lavori. La casa veniva su anche grazie all’uso di quella tavola.

Guardo l’isola dall’alto e mi sembra un po’ come quel tavolaccio. Lampedusa dalla forma allungata, un affioramento di terra completamente piatto, senza rilievi, mancante di colline. Un ponte in mezzo al Mediterraneo fra l’Africa e l’Europa. Il “tavolone” che tutti i migranti vorrebbero e devono attraversare per poter costruire la propria casa al di là del mare.

Ci arrivano dopo aver attraversato il deserto, la distesa del Sahara, migliaia di chilometri di sabbia rovente. Sulla costa li attendono le gabbie libiche, i campi in cui si aspetta la partenza. Fame, aguzzini, coltelli, violenze, torture.

 

Poi arriva il momento del barcone, alcuni di loro non lo hanno mai visto il mare, chi ha la forza e la fortuna di farcela sbarca a Lampedusa, un enorme tavolone traballante. 

Lampedusa ha vissuto negli ultimi tempi un doppio isolamento, quello geografico e quello pandemiologico. Sono circa 2000 i migranti arrivati in questi giorni sull’isola ancora in emergenza Covid e in zona rossa. 700 sono i cosiddetti “minori non accompagnati”, vengono classificati cosi perché hanno fra i 12 e i 17 anni, e sono da soli. Senza mamma e papà, senza parenti. Da soli.

Il centro d’accoglienza conta una capacità di capienza di circa 250 persone, sta praticamente scoppiando. Per alcune notti hanno dormito all’addiaccio, sotto gli alberi, avvolti nelle coperte termiche. Al largo la nave l’Azzurra, la nave quarantena, ha atteso per giorni di poter attraccare, ostaggio del forte vento di levante. Nemmeno le navi passeggeri sono giunte sull’isola. Oggi finalmente uno spiraglio di calma.

 

Auto in attesa d’imbarco, camion, cisterne, furgoni della Polizia, divise dei Carabinieri, ciabatte, veli, turbanti. Al molo civile, una ventina di migranti sono in attesa di essere imbracati verso Porto Empedocle. In fila composta, mascherina alzata, cappucci tirati sulla testa. Formano dei cuori con le mani a favore dei tanti obiettivi, mostrano segni di vittoria alle telecamere, sorridono. Sono giovani, troppo. Alcuni sono poco più che bambini. Per i giornalisti e i fotografi va in scena una nuova puntata de “l’imbarco”, nel resto del molo le attività vanno avanti non curanti di tutto ciò. Intere famiglie in auto percorrono il pontile, camionisti in canottiera manovrano i rimorchi, operai caricano merce.

Le luci dei faretti delle TV illuminano quei 20 ragazzi, quel piccolo spazio di banchina è sotto i riflettori, mentre la vita scorre ignara intorno.

Gli sbarchi di questi giorni non sono una nuova emergenza, questi arrivi sono solo una routine che continua. L’isola vive una vita separata, ma inevitabilmente influenzata dalla questione migranti.

Dopo uno sbarco i profughi vengono presi al molo d’arrivo, portati all’hot-spot confinati da alte recinzioni, rimessi sui furgoni dopo un’attesa variabile e imbarcati verso altre destinazioni. Il corridoio dal porto al centro è ben organizzato, i migranti non entrano mai in contatto con la popolazione residente, nemmeno per un secondo. Ma mentre la vita scorre separata, le sensazioni sono unite. Al resto del mondo arriva il messaggio di un’isola invasa da uomini portatori di malattie.

 

“Mia mamma ha pianto quando le ho detto che sarei andata ad insegnare a Lampedusa”, Silvia viene da Agrigento, l’ho conosciuta nei pressi del mio alloggio vicino una Scuola Media, lei è qui solo da qualche mese. I professori sono quasi tutti dei ragazzi trentenni, felici di scambiare qualche parola con me, noto come spesso nel giro di qualche minuto l’atteggiamento cambia, basta dire di essere stati al molo.

Qualcuno è convinto che il Covid sia addirittura arrivato sull’isola con i migranti. Questo pregiudizio è l’immagine che ha il resto del mondo di Lampedusa.

 

Alle 23:30 vibra il cellullare, il collega della Rai mi segnala un nuovo arrivo al molo Favaloro, salto sulla bici e comincio a pedalare. Via Roma è deserta, dalle 22 l’isola è sotto coprifuoco, attraverso l’insenatura del porto vecchio, in faccia l’odore della salsedine. Il molo Favaloro è una zona militare inaccessibile alla stampa, mi arrampico su una cancellata e mi ritrovo su un tetto. Su una motovedetta della Guardia di Finanza barcollano delle figure umane, uomini bardati li stanno visitando, due lampeggianti blu tagliano il buio. Mi trovo in piena notte su un tetto con i cronisti delle maggiori tv nazionali a filmare uno sbarco, tutto quello che avevo visto solo nelle tv è adesso reale.

A mettere piede sul molo sono molte donne con i figli. Una bambina tiene un coniglietto di pelouche stretto a sé. Coperte termiche, lamenti. Comincia a circolare qualche notizia. Anche questo sbarco ha seguito il solito copione: la nave madre si porta poco oltre i confini delle acque territoriali libiche, carica i disperati sui gommoni e si allontana. Il viaggio deve essere il più breve possibile. Non ci sono navi delle Ong in mare a soccorrerli, le ultime sono state fermate dalla quarantena. Gli unici presenti sono le motovedette militari italiane e i pescherecci. Il gommone viene svuotato e lasciato alla deriva. Ma non sempre il copione va liscio così, nel pomeriggio era stato segnalato un natante con 100 migranti a bordo, di cui però si sono perse le tracce.

 

Altri relitti, altri corpi in fondo al mare. Un'altra notte di ordinario orrore a Lampedusa.

Sbarco al Molo Favaloro
Sbarco al Molo Favaloro

In attesa dei turisti, i clienti in questo periodo sono le forze dell’ordine e la stampa. Poliziotti, video operatori, carabinieri, fotografi. Miriam lavora al banco di un bar in via Roma, sta servendo dei caffè a dei finanzieri: “Qui non sentiamo il peso dei migranti, qui ci transitano solamente. I nostri problemi sono altri, come la difficoltà a poterci curare. L’ospedale dell’isola è l’aeroporto”.

La banchina del porto Nuovo è animata dalle faccende del primo mattino, i pescatori sono rientrati da poco dalla battuta di pesca notturna. Qualcuno è già al lavoro per ricucire le reti. Si è pescato a strascico, seppie, calamari, totani.

“Se peschiamo un tonno ci arrestano, a noi non è concesso, l’Europa non ce lo permette. Oggi abbiamo scaricato 20 casse di polpi, le spese sono tante, per mantenerci siamo costretti a pescare tutta la notte”

Ogni tanto una rete resta incagliata in un relitto, qualche volta tira su un oggetto, una scarpa, un salvagente. Le mani bruciate dal sole rattoppano con maestria gli strappi, chiedo ai pescatori se qualche volta sia capitato che abbiano tirato su dei corpi. Non mi risponde nessuno. Gli sguardi mi dicono di sì, è successo.

Al noleggio delle bici incrocio degli occhi già visti, lo riconosco all’istante, è l’uomo dell’aeroporto. Dario gestisce un rent di motorini e biciclette. “L’emigrazione è un business di carne umana sul quale lo Stato ci guadagna, non possiamo essere noi isolani a pagarne le conseguenze”.

 

Coriacei, a volte duri, pazienti, spesso diffidenti. Ascoltatele le storie di questi isolani, perché sono sempre pronti ad accoglierti con il cuore. Ad offrirti un passaggio, a non farti pagare l’affitto della bici, ad invitarti a tornare a casa loro.

La via curva e sale lungo la terra brulla, il mare dai due lati, pedalo verso la parte ovest dell’isola, qui si trovano le spiagge più famose e frequentate dai turisti: l’Isola dei Conigli, la Tabaccara. Plastica e rifiuti scorrono ai lati della strada di Ponente. Ho trovato un’isola trascurata, come una bella donna che ha deciso di non curarsi. Discariche e plastica stridono con i panorami e le calette di un azzurro abbagliante, una situazione inquietante per un’isola che vive di turismo, un problema di cui l’amministrazione isolana dovrebbe seriamente occuparsi.

 

Capo Ponente, l’estremo ovest del tavolone lampedusano. Filo spinato cadente, antenne sconfitte dalla ruggine. All’interno di un’ex base militare dismessa, si trova uno dei posti più iconici della tragedia lampedusana. Per trovarlo ci si deve proprio finire dentro, ci si devi quasi inciampare.

Una catasta di barche e pescherecci, legno e metallo, vernice e sale. Il cimitero dei barconi. Un avvallamento da dove non si riesce a vedere il mare, una fossa schermata dalla brulla campagna dove non arriva nemmeno il rumore delle onde e le grida dei gabbiani. Vi regna un silenzio irreale, come se la natura avesse rubato agli elementi ogni alito. Nemmeno il levante sembra avere forza di spirare. Una montagna di prue e motori. Una scarpa, un telo, una coperta, giubbotti salvagente, ciabatte, taniche di benzina. Stive sfondate, vetri rotti. Ogni barca racconta una storia a sé.

Ho la sensazione di riascoltare le parole di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, l’ho conosciuto anni fa su un’altra isola, a Salina. Aveva davvero con sé la famosa pen-drive piena zeppa di immagini terrificanti. I corpi galleggianti intrappolati dentro le stive, le paratie graffiate dalle unghie, i corpi mutilati dalle torture. Ora che vedo questi scafi ripenso a quelle storie che mi raccontò, di gente impazzita, di disperati, di famiglie spezzate. Nonni, bambini, mamme, papà. Come noi.

 

In questo silenzio sembra di sentire le ultime grida di chi da questa barca ha chiesto aiuto, le preghiere di chi ha perso quella scarpa ed è finito in mare. La morte aleggia su questi relitti. Sinistra. Sudore, benzina, salsedine, fumo, sangue. Queste voci arrivano ancora oggi da lontano, le grida e la disperazione di chi in questo preciso istante sta attraversando il deserto, sta piangendo dentro un carcere libico.

Non piove quasi mai a Lampedusa, e quando piove cade acqua e sabbia. Una fanghiglia giallastra, una pastura che asciugandosi lascia su ogni cosa uno strato sottile di polvere. Tetti, auto, tavoli, tombe. Alfonso, Ezequiel, Pietro, Esath, non identificato. Nato e morto a Lampedusa. Nato in Nigeria e morto in mare. Ritrovato senza vita al largo di Capo Ponente. Al cimitero i nomi dei lampedusani si affiancano a quelli di chi sulla terra ferma è giunto cadavere, dove vi è arrivato in un sacco di plastica. Alcuni di loro riposano oggi nel locale cimitero, resteranno per sempre in quella landa assetata dal sole tanto agognata.

Ha piovuto questa notte, ha piovuto come piove a Lampedusa, acqua e sabbia. La sabbia del deserto. La polvere colora il marmo bianco. Il Sahara attraversato per giungere su questa terra traballante, copre oggi la loro lapide.

Da gennaio a maggio 2021, 500 persone sono morte sulla tratta verso l’Europa, dal 2014 al 2020, circa 16 mila persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo centrale.

 

Ascoltatele le storie dei migranti se non vogliamo che l’isola muoia insieme a loro, date retta ai racconti dei lampedusani se non volete lasciarli ancora più isolati, perché non si ricordi di questa terra solo durante gli sbarchi, perché servirà a rendere più stabile questo “tavolone” in mezzo al mare fra l’Africa e l’Europa.

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