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Un’altra notte a Bengasi

tramonto a Tunisi
tramonto a Tunisi

La guerra civile aveva portato alla destituzione di Gheddafi, era il 2011, d’un tratto sembrava fosse tornata la libertà per il popolo libico, ma era solo l’inizio di un nuovo caos. Dopo poco tempo arrivarono “loro”.

Gennaio 2014. Zuhair vive con il fratello e la madre nella sua casa di Bengasi: “un giorno li abbiamo visti camminare per le strade, la gialabia lunga fino ai piedi, il turbante in testa, ci chiedevano di recitare il Corano, volevano sapere di chi fossimo figli” – Zuahir è seduto in terra su un tappeto grande quanto tutta la stanza, rivive quei giorni in cui cominciò l’occupazione della città da parte delle milizie islamiche dell’Isis - “costringevano le donne a portare il velo. I poliziotti e gli uomini in divisa furono i primi ad essere ammazzati, li prendevano fino dentro casa, come facevano a sapere dove abitavano!”

I posti di blocco, le esecuzioni sommarie. Lui rischiava la vita tutti i giorni, dovendo necessariamente uscire per portare dal dottore il fratello malato.

Per evitare problemi si era fatto crescere la barba, indossava la veste lunga. La mamma aveva paura che qualche giorno non sarebbero più rientrati a casa.

Il rumore dei colpi d’arma da fuoco era continuo.  L’occupazione si faceva sempre più violenta.

 

Vivevano combattuti fra lo scappare da casa o aspettare l’evolversi degli eventi. Per giorni, tutte le sere, si sono detti che non potevano abbandonare tutto quello che avevano, fra le lacrime sceglievano di restare ancora e resistere. Ancora un’altra notte fra gli spari di Bengasi.

Roma – Tunisi - Bengasi

Ho conosciuto Zuahir all'aeroporto di Tunisi, nel tunnel che mi portava dentro l’aereo per la Libia.

Un ventenne sveglio, grande e forte, aveva notato il mio passaporto italiano, mi aveva chiesto da quale città venissi.

L’inizio del viaggio dall’Italia non era stato dei migliori. Dovevamo essere un gruppo di dodici persone, a Fiumicino ci siamo ritrovati in sei.

I telegiornali in quei giorni parlavano solo di crisi libica; gli scontri fra le truppe del generale Haftar e le forze militari del presidente Sarraj. Solo Libia. La paura ha fatto la sua parte, comprensibile la scelta di chi ha preferito non partire, noi sei abbiamo deciso diversamente. Ognuno con i propri pensieri in testa, le parole di familiari e amici. “State attenti mi raccomando”. Come se potesse servire, l’attenzione.

 

Siamo fermi nella capitale tunisina in attesa del visto. Bengasi si trova in Cirenaica, una zona che il governo ufficiale libico di fatto non governa, ecco il perché dei problemi.

Bloccati senza poter entrare in Libia a prestare aiuto ai loro stessi connazionali, fermati per un capriccio del governo che ci nega l’ingresso.

Decine di persone in attesa come noi: giornalisti, funzionari governativi, medici.

Il permesso di partire che arriva, anzi no, forse domani, il visto costa 100 dollari, anzi no, è gratis, ma servono le fototessere. Due giorni avanti e indietro dall’ambasciata.

Abbiamo il tempo di conoscere i ragazzi del team americano della “Cardiac Novick Alliance”, ci faranno da spalla in questa missione, loro operano in Libia ormai da anni.

La terza alba tunisina è finalmente quella buona, Stacey torna trionfante dall’ambasciata con i nostri passaporti in mano, abbiamo il visto e il permesso per entrare in cirenaica.

L’ultima barriera è stata saltata, l’apprensione inevitabilmente sale. Chiedo a Stacey se ha notizie da Bengasi, se ha paura. La sua risposta è per metà confortante, dall’altra parte da interpretare: “A Bengasi saremo al sicuro” - si dice certa che non ci saranno attacchi durante la nostra permanenza, e poi aggiunge: “Il vero pericolo è l’aeroporto”.

 

Le luci delle barche sul mare. Posso vederle dal finestrino dell’aereo. Sembra così calmo. Forse era cosi nell’ estate 1942, quando mio nonno, Arrigo Giovanni, classe 1919, partì da Taranto con un convoglio di navi militari dirette a Tripoli. Erano i tempi della guerra, della colonizzazione italiana.

Raccontava sempre di quella traversata miracolosa dall’ Europa all’ Africa. Su quella nave erano tutti convinti che non sarebbero mai arrivati vivi a destinazione, credevano che un aereo o un sottomarino avrebbe fermato il loro viaggio.

 

Tra i miei pensieri mi avvicina Zuahir, il ragazzo che ho appena conosciuto nel finger dell’aereo, mi mette in mano un biglietto con i suoi contatti, è un interprete, parla benissimo l’italiano e si dice disponibile a venirci a trovare in ospedale.

Non lo fa per soldi, lo sottolinea più volte, e con queste parole dimostra di conoscere bene gli italiani.

Il velivolo è pieno di invalidi, anziani, storpi. Tutta gente scappata dalla Libia per trovare la speranza di una cura nella sanità tunisina. In Cirenaica non ci sono servizi sanitari sicuri, il nostro volo sembra più un aereo diretto a Lourdes, un rimpatrio di feriti da un campo di battaglia.

 

Bengasi è sferzata dal vento, sono le 3 della notte, le strade deserte, sparuti posti di blocco agli incroci.

Quel poco che riusciamo a vedere scostando le tendine del pulmino tutte chiuse, oltre il fango che copre per intero il veicolo. 9 gradi, fa freddo.

Undicesimo piano del Tibesty Hotel, l’unico funzionante in città. La penombra è rotta solo dal rumore dei vetri scossi dal vento, l’aria condizionata non funziona. La struttura ha tutta l’impressione di essere stata chiusa per mesi, di essere per la gran parte inutilizzata.

Poche e semplici raccomandazioni: non uscire mai fuori da soli, non affacciarsi da nessuna finestra, non tenere le tende aperte, non lasciare la macchina fotografica in vista durante gli spostamenti.

 

Gli occhi dipinti dietro i veli, la forma dell’odore, i corridoi, le tuniche sotto i camici, le storie.

Benghazi Medical Center, il più grande ospedale della Cirenaica, l’unico in grado di eseguire ad oggi interventi cardiaci.

 

Shahad viene da Sirte, sono arrivati a Bengasi con un taxi privato, i trasporti pubblici non esistono. I genitori sono vestiti con abiti consumati. Durante l’intervento della loro figlia, hanno aspettato per ore seduti a terra in corridoio. Non ci avevano mai visti prima, non parlavamo una sola parola in comune, si sono solo fidati e basta. Alla fine dell’operazione chirurgica è stato un abbraccio sincero a parlare per loro, e le lacrime.

Case senza muri

Le gru svettano ancora dentro lo stadio in costruzione, i lavori sono fermi da anni, fermi per sempre.

Stiamo guidando verso il centro di Bengasi. Il parabrezza della macchina di Zuahir è lineato in più punti, contro le leggi della fisica resiste agli scossoni provocati dalle buche, le ruote affondano nei laghi di fango risultato della notte di pioggia e vento.

La sua famiglia aveva due macchine nuove prima di scappare, gliele hanno rubate entrambe durante la rivoluzione, ora non possono permettersi di comprarne una nuova.

Gli automezzi in movimento sono quasi tutti senza targa, vengono dall’Europa, molte non hanno libretto di circolazione, in pochi sono proprietari legittimi della loro macchina, nessuna ha l'assicurazione.

Non ci sono cartelli stradali, sulla via non ci sono regole, passa prima chi ha i riflessi più pronti.

Ci lasciamo alle spalle quella che fu la residenza di Gheddafi, sulla sinistra si apre il porto, e poi le macerie.

Il centro città è una montagna di cemento senza forma.

Ci sono le case senza muri, i muri senza tetto, le lastre di metallo che coprono i crateri dei colpi di mortaio e le scale che non portano da nessuna parte.

 

Cemento piegato come fogli di carta, edifici bucati dai razzi, muri disegnati dai fiori di piombo.

"Fossimo passati da questa strada ai tempi dell'occupazione dell’Isis saremmo già morti, ma molto prima di arrivare fin qui". - Zuahir ricorda ancora quei giorni, guardava i morti ammazzati e sentiva i conati di vomito. Ha resistito un mese prima di scappare sulle montagne con la sua famiglia.

L'Isis era asserragliata nei palazzi del centro, assediata dalle forze liberatrici del generale Haftar.

Nelle strade in cui cammino si combatteva porta a porta, gomito a gomito, fra quelle vie in cui stiamo camminando si raccoglievano i morti. La guerra contro lo Stato Islamico durò tre anni.

Bengasi era stata liberata ma era ormai un cumulo di macerie.

Quando Zuahir tornò a casa sua non c’era più nemmeno un mobile, l’edificio era vuoto. Avevano rubato tutto, anche i fili elettrici dalle tubazioni.

L’ingresso è un vialetto di fango, siamo fuori dalla città, sulla strada che collega Tripoli a Bengasi.

Lascio le scarpe sulla soglia ed entriamo in un grande salone. Un tappeto, una stufa e un divanetto -

"non abbiamo i soldi per ricomprare i mobili", sulla porta il quadro di Re Idris, l’ultimo sovrano prima del quarantennale regno di Gheddafi.

In una stanza ci sono ancora i segni dei proiettili sui muri, un buco di mortaio sul tetto.

La casa era stata occupata, violata, distrutta. In un angolo vi trovarono feci umane, a terra indumenti intimi femminili, sul muro una scritta: “Questa casa appartiene ai fratelli mussulmani”.

Sediamo in terra, mescolo i ceci al cous cous e alla carne d’agnello: “mio padre lavorava per il rais, ma non condivideva i suoi ideali, lavorava e basta” - Zuahir ci tiene a sottolineare questo concetto, la sua famiglia non aveva mai simpatizzato per Gheddafi, come molti qui in Cirenaica.

“Affama il popolo come i cani e vedrai che ti seguirà”, cosi parlava il rais.

Il padre di Zuahir era un generale dell’esercito libico, comandante di uno squadrone dell’aeronautica: “quando scoppiò la guerra civile, Gheddafi gli ordinò di bombardare Bengasi, mio padre rifiutò di farlo, non avrebbe mai distrutto la sua città natale, per questo venne imprigionato”.

Riuscito a fuggire scappò a piedi per 200 km da Tripoli a Misurata, giunto in città passò fra le file dei ribelli; la strada verso casa è la più dolorosa se casa non ti appartiene più.

Al fronte trovò la morte, a 50 anni, in nome di quella cosa da grandi chiamata libertà.

“prima la guerra civile, poi l’occupazione dei terroristi islamici, capisci perché oggi anche in mezzo alle macerie e ai contrasti almeno ci sentiamo liberi”.

 

Un caffè con la moka, il vialetto di fango, le macerie della città, il vetro lineato che resiste ai fossi.

Il volto di Haftar disegnato sui vetri, un’ambulanza nera sosta all’ingresso dell’ospedale, porta i feriti da Sirte, dal campo di battaglia.

Intorno è un via vai di soldati, di divise, di armi. Cerco di nascondere la fotocamera dietro il braccio ma mi bloccano all’ingresso. Un curioso individuo in jeans e giubbotto, basso di statura, per nulla autoritario nell’aspetto ma che sembra essere il responsabile dei controlli.

È indispettito dalla mia macchina fotografica. Mostro i documenti, vuole vedere le foto che ho scattato.

Capisce subito la mia innocenza, ma davanti a tutti non può mostrarsi tenero e farmi passare. In un’altra stanza mi confida che proprio in quell’androne, i miliziani dell’Isis travestiti da dottori fecero strage di soldati. Quel giorno lui era lì. 

Giuseppe e Maria

È buio da un pezzo quando rientro al reparto di cardiochirurgia, sono arrivati i ragazzi del turno di notte e noi stiamo quasi per andare via dall’ospedale.

Li abbiamo visti entrare, lui una lunga veste fino a piedi, marrone, la barba lunga, il cappuccio tirato sulla nuca, lei con il velo in testa, lo sguardo basso.

Se dovessi descrivere i personaggi biblici di Giuseppe e Maria, lo farei proprio immaginandoli in quelle vesti.

Tra le braccia della Maria libica, avvolto in una coperta, c’era Yahiya.

Quando i medici italiani sono arrivati in Libia, il bambino era ricoverato in grave scompenso cardiaco presso un’altra struttura di Bengasi.

Necessitava di un intervento di trasposizione delle grandi arterie, patologia che normalmente viene curata nelle prime due settimane di vita, poiché se non trattata per tempo determina una riduzione della percentuale di ossigeno nell’organismo con la conseguente morte del bambino per cianosi severa.

Yahiya, appena 40 giorni di vita, era già dato per spacciato, poiché in un momento ormai troppo avanzato per curare la sua malattia.

In città si era venuto a sapere della presenza del team internazionale, il caso è stato presentato all’equipe italiana che verificata la disponibilità del materiale necessario ha deciso di intervenire chirurgicamente.

L’ intervento si presentava particolarmente complicato, visto il grave quadro clinico caratterizzato da una concentrazione di ossigeno nel sangue molto bassa.

L’ultimo eco cardio la mattina dell’intervento ha confermato la possibilità di provarci, i camici bianche con la mezzaluna rossa, un corpicino disperso nella grandezza del letto.

La Maria libica consegna il suo piccolo agli infermieri, il dottor Sasha avvicina il Giuseppe libico pochi attimi prima di entrare in sala, la promessa di provarci come fosse suo figlio, le dita di Giuseppe ad indicare il cielo.

È stato durante quelle ore d’attesa che ho sentito la storia di un bambino che perse il padre, malato di cuore.

Ai tempi a Catania, la sua città, non c’era una struttura che potesse curarlo e fu costretto ad un viaggio della speranza da cui non fece mai più ritorno. Quel bambino ha dedicato la propria esistenza e la sua professione affinché tutto questo non accadesse più.

Quel bambino si chiamava Sasha Agati, lo stesso che ho visto piangere fuori dalla sala operatoria di Bengasi, subito dopo aver abbracciato il padre del piccolo Yahiya alla fine dell’intervento.

Il significato in arabo di questo nome è "dono del Signore". Yahiya è vivo grazie ad una serie di coincidenze, ad un miracolo, passato dalle mani di quel bimbo siciliano che adesso fa il chirurgo ed è diventato grande.

Forse non è stato solo un caso che tutta questa storia sia successa in Libia, in mezzo alla devastazione delle bombe.  Probabilmente Yahiya, una volta diventato grande conoscerà la sua storia dalla bocca dei genitori, Giuseppe e Maria da Bengasi.  Anche dalla morte e dalle macerie nascono speranza e vita.

 

Nonostante gran parte della città sia stata rasa al suolo, nonostante tanti vivono nella metà di casa rimasta in piedi, la popolazione ha comunque trovato la forza per andare avanti.

Sasha Agati
Sasha Agati

Oggi la Libia è un paese nel caos dove il potere lo fa la strada. Non girano soldi liquidi, non ci sono banche, chi ha i soldi sul conto non può usarli. I tagli grossi si trovano solo al mercato nero.

Imbrogli, corruzione, mazzette, favori, amici al posto giusto e con le giuste conoscenze.

È un po' una Sicilia più a sud del sud, come l’Italia.

Forse siamo stati noi colonizzatori a lasciare tutto questo, e questo continuano a fare, trafficando esseri umani e merci come fossero la stessa cosa. E più sei corrotto più sei ricco.

 

Mi piace però pensare che da noi colonizzatori abbiano preso anche l’allegria, i dolci in regalo in ospedale, le strette di mano e gli abbracci nonostante il protocollo islamico vieti i contatti fra uomo e donna, ma a quell’ultimo saluto proprio non abbiamo potuto resistere.

Ci siamo dati la mano, tutti avevano una stretta forte, come chi ha ancora qualcosa da dimostrare.

 

Ci muoviamo fra gli ostacoli e il caos dell’aeroporto, ad accompagnarci Mohamed, l’uomo arabo nel gruppo degli americani, l’uomo venuto in macchina da Tobruk che risolve tutti i problemi. Non ha mai preso un aereo in vita sua, non è mai stato su un treno, ma conosce perfettamente tutto quello che si deve fare in un aeroporto. L’unico uomo in grado di districarsi per noi in mezzo ad un posto senza regole, e riuscire a metterci su un aereo per uscire dalla Libia.

Un aeroporto dove neanche possedere una prenotazione è garanzia per avere un posto sull’aereo.

Un tizio in piedi sul banco dei check-in offre i tagliandi a chi ha bisogno, è una contrattazione al miglior offerente, una vendita di biglietti come fosse il mercato del pesce.

A fare la differenza in Libia non è la correttezza né la dignità, a fare la differenza è il denaro.

 

Questa volta nemmeno Mohamed ha avuto la meglio, ha comprato i nostri posti ma sul volo che partirà l’indomani. 

Tramonto a Bengasi
Tramonto a Bengasi

Il sole basso all’orizzonte, le macerie alle spalle e il mare d’avanti, il blu di fronte e il deserto dietro.

Quel silenzio parla una lingua magnetica, ma la senti solo se sei in grado di ascoltare.

Le storie di anime migranti affidate al mare, il profumo delle donne velate, l'odore del tabacco sui vestiti, il sapore del pane, la polvere che ti entra in macchina se apri il finestrino, le scarpe dalle punte consumate, il parabrezza di Zuahir, le mani di Sasha, il velo di Maria.

 

Le storie sul periodo bellico che raccontava mio nonno, finivano tutte con un augurio. Fino a quando ha avuto un filo di voce, mi ha sussurrato che durante la vita potremo affrontare periodi di crisi economica, povertà, malattie, ma fra tutte dobbiamo sperare sempre di non vivere mai la guerra.

 

Quel silenzio ti parla perché sa chi lo vuole ascoltare, e se l’ascolti ti indicherà la strada giusta da fare.

In quel silenzio, con il mare di fronte e le macerie alle spalle, c’era anche il suono della voce che avrà da grande il piccolo Yahiya. Sono sicuro che anche i miei compagni di viaggio siano riusciti a sentirla.

 

Il silenzio ha parlato a chi lo ha voluto ascoltare, il silenzio di un'altra notte a Bengasi.

Bengasi, Libia. Gennaio 2020

Matteo Arrigo