Il rumore della pioggia. Le gocce scivolano sul vetro della finestra a soffitto della mansarda.
Sul minareto nella moschea al di là della strada, il muezzin sta cantando il primo richiamo alla preghiera della giornata, nel silenzio della notte sembra sia quasi dentro la stanza.
Sono le quattro e trenta, illumino lo schermo del cellulare, la batteria è scarica.
L’avevo attaccato al cavo prima di andare a dormire, mi accorgo che manca l’energia elettrica.
Di buon mattino scendiamo al piano terra della nostra guest house, ci incrociamo con Shaban Bala, il proprietario.
Tira fuori il pacchetto delle sigarette dalla tasca della camicia, si avvicina all’uscio e ne accende una - “questa è la mia colazione” - butta il fumo in direzione della strada - “mi alzo, bevo un bicchiere d’acqua e ne fumo subito una, questa è la mia colazione”.
Nella notte è saltata l’energia elettrica a causa di lavori in corso, Pristina è un grande cantiere.
Dopo la guerra sono sorti dei quartieri nuovi; centri commerciali, palazzi. La città, come tutto il Kosovo, ha conosciuto la distruzione quasi totale a causa dei bombardamenti, il 60 % degli edifici erano macerie.
Era il 1998, una guerra sul suolo d’Europa.
Ci incamminiamo verso un bar insieme a Bala, vuole offrirci la colazione per riparare all'impossibilità di prendere il caffè nella sua struttura.
Le strade sono un groviglio di cavi sospesi, non vorrei essere l’elettricista che dovrà venirne a capo.
La Madre Teresa Boulevard è ancora deserta; un’area pedonale completamente costruita dopo il conflitto con la Jugoslavia di Milosevic, oggi vi si affacciano teatri, palazzi governativi, scuole, chiese, moschee.
Nemmeno gli edifici religiosi vennero risparmiati durante la guerra.
Bala ai tempi abitava in Danimarca, era andato via dalla Jugoslavia a gli inizi degli anni ’90, per cercare di fare fortuna e scappare dalla guerra dei Balcani, e c’era riuscito.
Aveva aperto una pizzeria a Copenaghen, era molto piccola mi racconta, più piccola della hall dell’albergo che adesso gestisce. L’attività andava bene, tanto che aveva aperto un altro locale, e l’anno dopo un altro ancora, assunse addirittura un pizzaiolo direttamente dall'Italia!
Tre pizzerie a Copenaghen con cui riusciva a vivere bene.
Un giorno accende la tv, il Kosovo, che allora era una regione della Jugoslavia, stava bruciando.
Le televisioni in quei giorni non risparmiavano l’orrore, la guerra entrava cruda e reale anche nelle case di noi italiani.
Vede le immagini dei profughi in fila alla frontiera, i corpi nelle fosse comuni, vede il suo villaggio distrutto. Nemmeno ci pensa, abbandona tutto quello che ha creato in Danimarca e torna nella sua terra a combattere.
La popolazione fuggiva e lui si mise su un aereo per tornare.
La domanda mi viene naturale - “eri in una terra in pace, lavoravi nella tua tranquillità, perché sei partito per andare a rischiare la vita in guerra?”
Aspira l’ultimo tiro di tabacco - “perché io sono nato qui” – le dita giù ad indicare il suolo, a rafforzare il concetto e la sua scelta - “io sono albanese del Kosovo”.
Percorriamo in macchina la strada in direzione delle montagne.
Le case in costruzione si alternano alle cave di sabbia e alle discariche di inerti. Il Kosovo è un cantiere in fermento, è l’effetto del dopo guerra, si costruisce all’impazzata, senza logica.
Il risultato sono palazzi con colonne doriche, templi in mezzo alla campagna, Casinò attorniati da discariche. È tutta un’architettura di dubbio gusto, un po’ troppo chic.
Trattori, zucche, cataste di legna, anziane donne con il velo in testa, minareti, ragazzini che pescano, discariche, torrenti.
I villaggi compaiono e scompaiono fra le curve delle montagne.
Le bandiere sulle abitazioni indicano l’appartenenza di un villaggio: bandiera rossa con aquila nera prevalenza albanese, bandiera a strisce rosso-blu-bianco villaggio serbo.
Significativo il fatto che siano poche le bandiere kosovare, si vuole mettere in risalto l’appartenenza e così anche le differenze.
Dalla fine della seconda guerra mondiale il Kosovo era una provincia autonoma della Serbia, i cui abitanti nativi però erano a maggioranza albanesi.
La guerra in Kosovo fu un'operazione premeditata. Il regime serbo già dal 1995 aveva preparato una campagna contro gli albanesi del Kosovo.
Per giorni e settimane le truppe serbe assediarono villaggi albanesi e li bombardarono fino a ridurli in ruderi. La gente scappò all'estero quando riusciva ad uscire dalle aree chiuse dalle truppe di Milosevic, oppure girovagava nelle stesse zone assediate, si rifugiava sulle montagne per tornare a casa ad attacco finita, ammesso che la casa esistesse ancora.
Sulle stesse strade e per le vie dei villaggi che percorriamo avvennero gli attacchi, i saccheggi, le case vennero date alle fiamme, il bestiame ammazzato.
Quando arriviamo a Pritzen è quasi il tramonto. La voce del muezzin si accavalla ai canti della funzione ortodossa. Una moschea e una chiesa distanti la larghezza di una strada. Una pacifica convivenza che non sempre è reale.
Ce lo racconta Maximilian, professione fabbro, fede mussulmana. Le mani annerite dal carbone e dalla polvere di ferro, la sua bottega è un antro di oggetti metallici, - “non tutto è pace qui”.
Una giovane bionda riccia, vestita di nero, è l’ultima cliente di giornata. Un’ascia con una lama lucida rifinita proprio quel pomeriggio, Maximilian la incarta soddisfatto in un foglio di giornale.
L’inverno è alle porte, accatastare legna è la prima necessita.
Il fumo di un venditore di castagne, una zingara con pochi spicci sul cartone, una macchina da cucire in movimento.
Il freddo fra queste montagne è terribile, il buio della notte ci riporta a Pristina.
Buio come i punti oscuri di una guerra non troppo lontana. I settantotto giorni di bombardamenti NATO, le bombe all'uranio impoverito, i crimini dei serbi, le azioni poco chiare dei ribelli albanesi dell’UCK (Kosovo Liberation Army), l’intervento armato non ufficialmente autorizzato degli Stati Uniti a fianco dei ribelli.
Resta oggi una strada a Pristina intitolata a Bill Clinton, con tanto di statua e gigantografia.
L'impiego delle forze armate contro la propria popolazione, contro i civili, contro qualunque essere vivente in ogni paese del mondo, rappresenta una violazione del diritto umano e una sconfitta per tutti.
Il rumore della pioggia. Shaban Bala ci aspetta al piano terra della sua guest house, siamo ai saluti.
Ci invita a ritornare a trovarlo, la sua struttura sarà più grande ed accogliente, è una promessa. Crede molto nelle potenzialità turistiche del suo paese, per questo ha investito in un punto ricettivo.
Metterà alle pareti su per le scale, le foto della gente che ha ospitato. Promette che ci sarà anche la nostra - “Torna in Italia e racconta che qui non c’è più la guerra”.
Ci accompagna alla porta e accende una sigaretta.
È tornato il sole, io ho l’ultima domanda da fargli - “durante la guerra hai ucciso?” - aspira profondamente - “questa è la mia colazione", - tiene la sigaretta con due dita, - “mi alzo, bevo un bicchiere d’acqua e ne fumo subito una, questa è la mia colazione”.
È lunedì mattina, Madre Teresa Boulevard è piena di giovani studenti. Serbi e albanesi sulla stessa strada.
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