La prima cosa che colpisce quando si arriva in Africa è la luce. Forte, intensa, luce dappertutto. Il sole brucia gli occhi e la pelle.
Chissà se ha avuto la stessa sensazione mio nonno settanta anni fa, quando in piena Guerra Mondiale raggiunse il continente nero in nave partendo dal porto di Taranto.
Erano gli anni delle conquiste coloniali, storie di schiavi, cannibali, fame e malattie.
Mi raccontò la paura di raggiungere quella terra sconosciuta, i passaggi di un viaggio dantesco: l’inferno della nave con la paura di essere bombardati o silurati; il purgatorio del campo ai margini del deserto sahariano, dove lo operarono “a carne viva” per un’otite provocata dalla sabbia entrata nell’orecchio; il paradiso del ritorno a casa dove nessuno si aspettava più di rivederlo.
Il continente nero era una terra di conquista da depredare. Secoli di deportazioni, disprezzo, umiliazioni e sofferenze, hanno impresso nell'africano un complesso d’inferiorità sepolto in fondo all’animo.
L’Africa non si è ancora ripresa dall'incubo di quella sciagura, ma il mondo ha capito che adesso è una terra d’aiutare con la conoscenza, al pari degli aiuti materiali.
Una richiesta d'aiuto giunta ufficialmente dal governo namibiano alla Cardiologia Pediatrica del Mediterraneo di Taormina, un invito a prestare assistenza ai medici locali.
In Namibia i bambini malati di cuore muoiono, i più fortunati sono mandati ad essere operati in Sud Africa con costi insostenibili.
I paesi africani desiderano oggi curare i bambini a casa loro, formare il personale per operarli nelle loro strutture.
La prima cosa che colpisce quando si arriva in Africa è la luce, la stessa che mi accoglie in questa nuova missione in Namibia; “The Land of the brave”, così ce la presentano i ragazzi del Central Hospital di Windhoek, “La terra dei coraggiosi”.
Avrò modo di constatare la veridicità di quest’affermazione.
In questo cammino dantesco mi accompagna Pascal, un omone di etnia afrikaner, i discendenti dei boeri che giunti dall’Olanda colonizzarono questa terra trecento anni fa. Sangue misto africano ed europeo, porta con sé la timidezza e un rispetto quasi reverenziale per l’uomo bianco. Con la sua paura e spontaneità, sarà il Virgilio che mi accompagnerà in questo viaggio, mi aiuterà a conoscere veramente questa gente.
Cordialità, pulizia, accoglienza. L’ospedale si presenta ai nostri occhi come una sorta di paradiso in mezzo al deserto, le nostre aspettative della partenza erano peggiori e molto pessimiste.
I medici e il personale operano in delle sale pulite e attrezzate. Sembra quasi difficile capire il motivo del nostro viaggio.
Sono i primi giorni in cui si impara a conoscere la gente: Fennye, una donna alta e bellissima, una modella prestata alla cardiologia; Nico, l’anestesista di sala che si sorprende perché fra un intervento e un altro non si fanno mai pause.
In un viaggio “normale” si visita una nazione, in una missione la scopri veramente.
Aiuole verdi, vialetti fioriti, decine di camici bianchi pronti ad entrare in aula. Vicino all’ospedale sorge l’Università della Namibia, una struttura moderna e fornita di laboratori. Dentro queste mura si studia anche la soluzione per sconfiggere il virus dell’HIV, uno dei mali di questa terra.
Nella stanza dei bottoni incontriamo il rettore, un uomo bianco di bassa statura che sminuisce all’occhio l’importanza del suo ruolo. In una breve discussione si gettano le basi e si trova l’accordo per un ritorno dei medici italiani in questa terra, le parole del professor Rennie sono chiare: “nelle nostre aule formiamo medici, abbiamo bisogno di voi per farli diventare specialisti.”
Basta una stretta di mano per avere la garanzia che sarà un arrivederci, in questa terra è sufficiente.
I tuoni rimbombano sull'altipiano di Windhoek, il cielo sembra cadere sulle colline. La città si era sviluppata nel sito di una fonte d’acqua, liquido che nel corso dei secoli è scomparso. Pascal guarda la pioggia scendere copiosa come stesse guardando il corpo di una bella donna.
In questa landa desolata non pioveva da 10 mesi, l’acqua è un bene prezioso, gli approvvigionamenti sono scarsi. L’acqua presente in città viene impiegata in un circolo continuo e chiuso, viene usata, depurata e reimmessa nelle condotte.
Pascal riempie una busta di plastica con tubi, cerotti, aghi. “Vieni con me” – ha il volto serio – “adesso andiamo all’inferno”.
Usciamo dal Central Hospital con la busta in mano, per un attimo ho l’immagine di Pascal nei panni di un operaio al mattino diretto al lavoro, portando nella borsa il pranzo, invece noi stiamo andando ad inserire un drenaggio a un bambino. Con i ferri in una busta di plastica.
Il caldo è diventato appiccicoso, umido.
L’ospedale pubblico dista pochi minuti in macchina da quello centrale. Pubblico perché aperto a tutti, poveri e derelitti fra i primi.
L’ingresso è un brulicare di persone, intorno a questi edifici si creano sempre dei punti d’incontro: un piccolo mercato coperto di stracci, la brace accesa di un venditore di carne, un punto comodo all’ombra dove osservare il fiume umano scorrere. L’africano è sempre in movimento, si sposta di continuo, dall’alba al tramonto. Per cercare lavoro, per guadagnarsi il cibo, o semplicemente per far passare le ore e non pensare alla sofferenza quotidiana.
Quinto piano: la porta dell’inferno.
Ogni angolo disponibile è occupato da qualcuno, una mescolanza di colori ed etnie. Gli Herero con i loro copricapi a forma di corna bovine, gli Himba con i neonati attaccati al seno. Afrikaner, Ovambo, San; l’essenza dell’Africa sta nella sua immensa, sterminata varietà.
Materassi buttati per terra, bambini che corrono all’impazzata, odore di ospedale.
Clarence è un boscimano, ha 7 anni, il volto piccolo e rotondo, un male al cervello diffuso ormai anche agli organi vitali. Ha un versamento pleurico, per questo necessita di un drenaggio toracico.
La stanza dove lo troviamo assomiglia più a uno sgabuzzino che a uno studio medico, una sola piccola lampadina getta le ombre sul muro. Indossare la cuffia e la mascherina mi sembra più una formalità scenografica che una precauzione reale.
Con poche cerimonie Pascal comincia il suo lavoro. In uno sgabuzzino, con la sua busta di plastica, senza anestesia. Insieme alla madre tengo ferme le braccia di Clarence, il sudore scende a rivoli sulla fronte di Pascal, la stanza è diventata un forno. Resto pronto a tenere anche le gambe qualora dovesse muoversi, ma gli arti sono immobili, la sedia a rotelle è dall’altro lato del lettino, vi si è seduto sopra il fratellino che assiste immobile alla scena.
Sudore, caldo, disinfettante, urla. Fra le grida solo poche chiare parole “sono nato sfortunato”.
Chiedo spiegazioni a Pascal sul perché non gli sia stata fatta l’anestesia, la risposta è semplice e disarmante: “perché non abbiamo anestesisti”.
Mi invita a seguirlo in quel girone infernale.
Una donna mi guarda dal suo lettino completamente nuda, un paravento la separa da un giovane ragazzo evidentemente operato da poco. Le finestre sono aperte, le mosche volano richiamate dall’odore del sangue. La terapia intensiva è tutto quello che non dovrebbe essere.
Un europeo ricoverato in quest’ambiente, probabilmente sarebbe presto vittima d’ infezione.
Camminiamo fino ad una tenda in fondo alla stanza, il letto è zuppo di sangue, un uomo che sembra un gigante è attaccato al respiratore. Sul torace e sul collo dei grossi cerotti, è stato accoltellato forse durante una rapina, qualcosa poi è andata storta.
Il petto si muove solo aiutato dalla meccanica, i valori vitali sono quelli di un uomo morto.
Uscendo dall’ospedale Pascal mi confida perché mi ha portato a vedere quella scena: perché tornando in Italia possa avere ancora più chiara l’idea delle differenze che esistono.
Un uomo muore dissanguato perché hanno sbagliato a fare la trasfusione, mentre le aule dell’università sono piene di studenti per cercare di colmare queste differenze, per dare a questi posti una dignità umana. La spiegazione di questo divario non può essere la semplice sfortuna di essere nati in questa parte di mondo.
Era un tranquillo assolato pomeriggio nella pace del reparto del Central Hospital. La sera prima avevamo giocato con Martha, si era fatta delle grosse risate nascondendosi sotto il lenzuolo.
L’ho seguita fino all’ingresso della sala operatoria e ancora fino al letto della terapia intensiva. Ma a volte le cose non vanno come devono andare. Martha è andata in arresto cardiaco in un tranquillo pomeriggio assolato. Nessun preavviso, il beep continuo, un attimo. Il momento in cui comincia la battaglia, la tranquillità si trasforma in caos.
Seguo la scena dal fondo della stanza. Martha è nascosta alla mia vista immersa nel suo basso lettino, intorno si affollano medici e infermieri.
Defibrillatore, massaggio cardiaco, aria nelle arterie, plasma, sangue, prendi l’adrenalina, spostati. Tutti dicono qualcosa, vola anche qualche insulto.
Un’ora e quaranta minuti di massaggio cardiaco, lo sterno aperto, la pompa meccanica. I medici sono tutti intorno a letto, da lontano posso vedere l’intera scena, un quadro in cui sopra sembra aleggiare uno spettro, una presenza, un’anima nera. Guardo sul mio telefonino il video fatto solo la sera prima, Martha che si “scompisciava” dalle risate sotto le lenzuola, voglio in quel modo esorcizzare e scacciare la presenza di quell’ombra oscura, quasi fosse più efficace vederla ridere in un video che prestare una cura medica.
La mamma è seduta fuori in attesa dell’orario delle visite, ignara di tutto, immersa dentro una maglietta rossa del Manchester United.
Ci ha messo due ore a lasciarci. La calma rassegnata è tornata nella stanza, mentre quel corpicino andava via in un sacco di plastica. L’ultima risata lontana in un video nel mio telefonino.
In ogni battaglia si calcola la percentuale dei soldati che dovranno morire per poter ottenere la vittoria. Sono quelli che non torneranno a casa a fare vincere la guerra.
Anche le missioni umanitarie contano la loro triste quota.
La prima cosa che colpisce quando si arriva in Africa è la luce. Forte, intensa, luce dappertutto.
È stata la stessa sensazione avuta quella mattina uscendo dall’hotel. Le valigie già pronte, l’ultima mattina africana.
Una domenica mattina come tutte le altre. Pensavo a gli italiani a messa, i bimbi al catechismo, il pranzo in famiglia della domenica.
Lo pensavo mentre attraversavamo la città diretti all’orfanotrofio.
L’asfalto, il ritmo africano in radio, le borse con i regali. L’ultima visita in programma nell’ultimo giorno di permanenza in Namibia, poco prima di andare in aeroporto.
La città, i palazzi, la polvere, le lamiere. Era tutto bruciato dalla luce quando siamo arrivati a destinazione.
Per un attimo ci siamo smarriti.
Una bidonville. Lamiere su lamiere buttate su sabbia e acquitrini. Interi quartieri tirati su senza un solo mattone, senza un ferro, senza servizi, strade, acqua.
L’orfanotrofio era una scatola di latta arroventata dal sole di mezzogiorno.
La stanza era un odore di corpi surriscaldati e di carne andata a male, di fiori freschi e di alghe essiccate, un odore piacevole e irritante. Gradevole e ripugnante. Come l’Africa.
Decine e decine di bambini, stipati, composti. Un canto unito, un grazie per la nostra visita. Qualcuno di noi ha ceduto, qualche altro inghiottiva. Volevamo evitare di mostrare le lacrime ai bambini.
I veri eroi abitano in quei posti ai confini della realtà. Alla “casa della buona speranza”, Monica, la mamma di tutti, accudisce centinaia di bambini fra infinite insidie e difficoltà.
La cisterna d’acqua potabile è distante chilometri, ci si lava nei recipienti di plastica, non c’è un bagno.
D’estate quelle lamiere diventano delle trappole infernali, i bambini ci muoiono.
La vita di questa gente è un tormento, una fatica che tuttavia sopporta con incredibile serenità e resistenza.
C’era un bambino di cui non saprò mai il nome, due anni forse, poteva essere mio nipote. Mi è rimasto attaccato al collo per tutto il tempo della visita. Quando ha capito che stavamo andando via si è stretto di più, non voleva lasciarmi. Forse è stato lì che ho ceduto anche io, mentre andavo via senza avere la forza di guardarlo ancora.
Esiste una canzone africana che si chiama "Kum ba yah", in italiano “vieni qui”. La canzone era originariamente un appello a Dio per venire ad aiutare chi era nel bisogno.
L’abbiamo cantata insieme mentre l’affetto dei bambini ci sommergeva letteralmente.
Esiste un purgatorio dentro il quale si conserva ancora qualche speranza, come in quest’orfanotrofio.
La prima cosa che colpisce quando si arriva in Africa è la luce. Luce dappertutto, forte, intensa. C’era anche quella mattina, quando andando via abbiamo guardato i bimbi salutarci davanti alle lamiere dell’ingresso. Abbiamo compreso la luce dell’Africa, quella vera. Quella che loro portano negli occhi, grande e piccoli.
Non era la luce abbagliante del sole a far scendere le lacrime dai nostri occhi.
Gli eroi qui sono quelli che combattono la guerra tutti i giorni, non come quella che gli europei portarono qui insieme a mio nonno, ma quella per arrivare vivi a fine giornata con lo stomaco pieno e con ancora tanti desideri da realizzare.
Un viaggio dantesco fatto di sofferenza e speranza, un viaggio nel dolore e nell’intima bontà dell’uomo.
Gli eroi sono Monica, la donna all'orfanotrofio.
Sono Nico, l’anestesista, che tutti i giorni si mette il camice ed entra in sala operatoria, lui l’anestesista non lo voleva nemmeno fare, è stato quasi costretto a scegliere perché quando è arrivato in ospedale non c’era nessuno a farlo. Al Central Hospital, prima dell’arrivo degli italiani, non hanno operato per due mesi, perché Nico, l’unico anestesista è stato male, troppa pressione a cui non ha resistito, niente interventi, tutto fermo per due mesi. Non poteva credere al fatto che insieme agli italiani era riuscito a rimanere giornate intere in sala operatoria.
Il contatto e la collaborazione umana aiutano a superare le difficoltà, senza scambio non c’è progresso.
Gli eroi sono la gente come Pascal, che con la sua busta di plastica va tutti i giorni senza lamentarsi a svolgere la sua missione. Spesso impaurito e incapace di decidere.
Ma con la paura si cresce, e una volta passata, si vince la guerra e si cambia la storia.
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