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Mettici il cuore. La mia esperienza da non medico in una missione di cardiochirurgia in Tanzania

 

 

Indosso la divisa, i calzari sterili. Attraverso lo spogliatoio ed entro in corsia, c’è ancora la calma delle 8 del mattino. <<jumbo>>, saluto gli infermieri che ti accolgono sempre con il sorriso. Metto la cuffietta, la mascherina, imbraccio la fotocamera ed entro in TIC, la terapia intensiva cardiologica.

 

I medici stanno facendo già il giro mattutino, Godwin il primario della cardiochirurgia, è seguito dal dottor Sasha, medico in missione della cardiochirurgia di Taormina.

La piccola Fatima è ancora intubata dopo l’intervento del giorno prima, i valori cominciano ad oscillare, non sono buoni. Vedo facce preoccupate. I medici si interrogano su come agire, i valori continuano a peggiorare. Provano a spiegarsi il peggioramento improvviso. Poi quel suono, la luce, il cuore in arresto.

Un secondo di silenzio, senza fiato, comincia la battaglia.

In un attimo è il caos. Defibrillatore, siringhe. Vedo gli infermieri del reparto correre in tutte le direzioni.

Chi porta semplicemente un tubo, chi arriva con una garza. Porte che sbattono. Confusione. Cerco di rendermi utile tenendo la porta aperta con un piede e favorire l’ingresso del personale medico. Il suono continua. Un’infermiera si ferma, alza le mani al cielo e nel mezzo del corridoio comincia a pregare.

Manca qualche medicina, non capisco cosa, vedo attraverso i vetri i medici indaffarati sul corpicino, troppo piccolo per poter accettare che stia succedendo davvero. È una lotta alla sopravvivenza che tutti i giorni viene combattuta con i mezzi che in questo posto si hanno a disposizione.

Il cuore riparte, lentamente torna la calma.

Per la piccola Fatima non è ancora arrivata l’ora di lasciare questa terra. Per oggi proseguirà anche lei la sua battaglia.

Perché questa è l’Africa.

Dalla finestra vedo il caos nelle strade dell’ospedale. Centinaia di persone percorrono quei viali, un fiume colorato. Fuori dal cancello d’entrata, il traffico e la quantità di persone sono tipiche di una grande città africana.

Dar es Salaam vive tra le bancarelle di strada, le apecar, l’oceano Indiano. A pochi minuti di strada dall’ospedale partono i traghetti che portano i turisti dentro il sogno esotico e danaroso di Zanzibar.

Il Muhimbili National Hospital è una bolla di speranza dentro il caos africano, l’unico ospedale della Tanzania. Qui ci vengono in migliaia.

Al piano terra della cardiologia pediatrica, la dottoressa Nais visita le centinaia di bambini che sono venuti per farsi curare durante questa settimana di missione italiana. Alcuni hanno fatto chilometri a piedi, vengono dalla savana, un viaggio durato parecchi giorni, appartengono a molte delle varie tribù della Tanzania, lo si capisce dai differenti lineamenti, dai differenti costumi. Cristiani, mussulmani, atei.

I medici italiani sono sempre i più attesi, si sono fatti apprezzare negli anni, e sono sempre sorridenti come loro.

 

Il dottor Andrea, alla macchina dell’ecocardio, analizza tutti i bambini. Alcuni non hanno compiuto nemmeno un mese di vita, altri sono un po’ più grandi, i più irrequieti, è strano per loro trovarsi davanti un dottore bianco e una sonda. 

Una delle prime ad arrivare è Sophia, 4 anni, soffre di una grave cardiopatia congenita complessa, vedo il suo cuore battere sul monitor del computer. Decidono che andrà in sala operatoria quel giorno stesso.

Nais comunica alle mamme le diagnosi, a volte le sputa proprio in faccia, con durezza.

Per alcuni bambini non c’è cura, non c’è intervento che possa salvarli. Le parole sono chiare, dirette, dure, ma le mamme le incassano con una forza e una dignità fuori dal normale, qualcuna vacilla, ma è un attimo. Se così deve essere che lo sia. Baba yetu, il Nostro Padre, ha deciso così. La fatalità. La non conoscenza delle strade della medicina, della risoluzione del problema, porta gli africani ad affidarsi ancora di più a quello che è il destino, la decisione di un dio, qualunque esso sia.

Su centinaia di bambini visitati, solo alcuni potranno essere operati. La scelta è cinica ma è necessaria.

Per i dottori italiani bisogna decidere a chi dare la speranza, ed escludere chi purtroppo non potrà farcela lo stesso.

È il filo sottile fra la vita e la morte. È la fortunata differenza per un bambino di trovarsi in ospedale durante una missione umanitaria ed essere venuto al mondo in questo continente un mese prima o dopo.

È la scelta della speranza che loro malgrado i medici sono costretti a fare.

Interventi che in Italia vengono effettuati quotidianamente, qui diventano una scommessa di variabili infinite.

Perché questa è l’Africa.

Gli infermieri sono in attesa. La mamma recita l’ultima preghiera con la mano sulla nuca di Sophia, le labbra si muovono piano, l’ultimo sguardo, la piccola viene consegnata alle braccia amorevoli degli infermieri.

Il percorso dalle braccia della mamma al lettino operatorio è una sorta di limbo silenzioso.

Una decina di metri e ci troviamo sotto le luci della sala operatoria. Vaschette, forbici, i volti con le cuffie e le mascherine.

Sophia è spaventata, trema. Forse è la prima volta che si trova senza la mamma. Arianna prova a tranquillizzarla stringendola tra le sue braccia, qualcuno le ha disegnato un piccolo cuore sulla garza vicino all’ago cannula.

Mami recita il Padre Nostro. Il display rosso scandisce i secondi.

I suoni della sala. Guanti di lattice. Disinfettante. Bisturi. Gli odori. Il cuore malato. Le ore di intervento. Le mamme in ansiosa attesa oltre le porte scorrevoli. La sera che scende. La terapia intensiva.

Mentre Sophia nel post operatorio è addormentata a letto, le metto accanto una piccola paperella di pelouche che amici italiani mi hanno dato da portare insieme ad altri giochi.

Quando si sveglia, in mezzo ai tubi, ai fili, ai cerotti, la trova lì, e la abbraccia. Ha un cerotto che le copre tutto il corpicino. È spaesata, irrequieta, durante la giornata prova a togliersi la cannula dalla mano, si strappa il misuratore di battiti dal dito. Provo a dirle qualcosa, non riesce a ridere.

 

Le ora in terapia intensiva sono dilatate, pesanti.

Durante la missione passiamo con i medici anche 16 ore al giorno in reparto. Giorni in cui non li ho mai visti cedere alla stanchezza, mai hanno mollato nessuna situazione.

Gli interventi si susseguono. Ally di un mese “tetralogia di Fallot”, Samweli di 4 mesi “atresia polmonare”, Julye di 4 anni “truncus arteriosus”.

Il dottor Godwin è l’unico cardiochirurgo di tutta la Tanzania. Per rendere meglio l’idea, nell’omologa struttura taorminese di chirurghi ne operano 4.

Essere affiancato dai medici italiani è per lui un’opportunità di crescita.

Il senso dei volontari in missione, più che operare materialmente, è proprio questo, formare il personale del posto in modo che una volta finita la missione possano essere in grado di portare avanti il reparto, gestendolo al meglio e riducendo gli errori, cosa che purtroppo la non formazione adeguata del personale tanzano porta a commettere.

È questo che mi racconta Mirko, alla sua terza missione in Tanzania, la decima fra Congo, Mozambico, Afghanistan. Qualche anno fa in Africa ha contratto la malaria, e oggi che a Roma ha tre figli, continua a tornarci con la stessa voglia di sempre.

I volontari non sono dei “nuovi Madre Teresa di Calcutta”, non vogliono sentirsi cosi. Sono solo dei professionisti, padri e madri di famiglia, figli, che mettono a disposizione la loro preparazione all’estero, in condizioni difficili, con lo stesso amore e dedizione che mettono in Italia.

Qui la preparazione e la presenza di spirito al momento giusto, fanno la differenza fra vivere o morire. Danno il senso all’ aver lottato o aver abbandonato.

 

Perché questa è l’Africa

Indosso la divisa, i calzari sterili. Attraverso lo spogliatoio ed entro in corsia, c’è ancora la calma delle 8 del mattino. <<jumbo>>, saluto gli infermieri che ti accolgono sempre con il sorriso. Metto la cuffietta, la mascherina, imbraccio la fotocamera ed entro in TIC, la terapia intensiva cardiologica.

Un letto è vuoto. Fatima questa notte ha perso la battaglia. Stanno rifacendo il letto. Vedo oltre la finestra il caos nelle strade dell’ospedale.

È tutto ovattato. Cerco di incrociare qualche sguardo. I medici parlano di quello che è successo in nottata. Il letto adesso ha le lenzuola pulite ed è di nuovo pronto. Riparte il giro delle visite. Ricomincia la battaglia. La terapia intensiva è così.

In una missione di questo genere è messa sempre in preventivo la percentuale di insuccesso, la possibilità che qualcuno non ce la faccia.

 Perché questa è l’Africa.

In ospedale le madri entrano solo con i vestiti che hanno addosso, i figli indossano a volte magliette strappate, calzature sfatte, alcuni non li hanno proprio.

In questa terra dove niente è indispensabile, dove un ombrellone rotto diventa un telo su cui sedersi, dove quello che si possiede veramente lo si porta dentro.

Non so se la piccola Sophia abbia mai capito che quella paparella gliel’ho lasciata io.

So che l’ultimo giorno, quando sono andata a salutarla alla degenza, quel pelouche era lì sul letto. Ho alzato la mano per salutarla dalla soglia della porta, mi è corsa incontro e si è attaccata alle mie gambe, ci siamo abbracciati. Mi stringeva così forte che avevo paura di farle male per quella grossa cicatrice ancora fresca che le correva per tutta la lunghezza del petto. Non so se ho pianto o ho sorriso.

Raggiungere la terra degli ultimi mi ha permesso di godermi lo spettacolo della vita dalla prima fila.

 

Perché anche questa è l’Africa.

Ho vissuto una settimana tra le corsie di un reparto difficile, per me che medico non sono è stata dura accettare quello che per uno specialista può essere la normalità.

Ho cercato di raccontarvi cosa voglia dire “andare in missione”.

Ho cercato di documentare senza essere invadente quello che ho vissuto.

Ho cercato di essere impassibile fino a quando ho potuto, quando non ce l’ho fatta sono entrato in un'altra stanza, oppure ho guardato da solo la città dall’alto della terrazza.

È stata un’esperienza forte ma formativa, e ho voluta raccontarla sperando che a qualcuno arrivi il messaggio che la nostra quotidianità è fatta troppo spesso di cose superficiali a cui diamo troppa importanza. Ci facciamo “mangiare” dagli affanni della vita, da ansie e paure che non sono necessarie, quando invece dovremmo dare in pasto a noi stessi solo gioia, speranza, serenità, umiltà, gentilezza, benevolenza, generosità, verità, compassione, fiducia, e torneremo a credere ancora nei piccoli miracoli quotidiani che ormai non vediamo più.

 

Piccoli come una paperella di pelouche. 


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