Racconti di viaggio. Leggi tutti i miei scritti nella sezione blog di viaggio
L’aria è pregna di fumo, la scena è intrisa di spiritualità, lo sciamano sta celebrando l’ultimo atto della sua purificazione. Mi guarda e mi fa segno di entrare nella cappella. La luce taglia la polvere, l'incenso riempie lo spazio, l'ultimo atto di guarigione ad un uomo che aspetta silenzioso in un angolo.
Proviamo a chiamare ma il cellulare di Suor Sabina non squilla. Ci aveva detto che l’istituto si trovava fuori Yaoundé, ma persino Samadi, il nostro autista, inizia a perdere i riferimenti. Siamo nella campagna rurale del Camerun, tra case di fango e bambù. Una cartina disegnata a penna e tante indicazioni frammentarie ci guidano fino alla missione delle Suore Domenicane Figlie del Santo Rosario di Pompei, a Bikok.
Suor Sabina ci viene incontro barcollante. Ha 84 anni, viene dalla Campania, vive in Africa da trent’anni. Da tre settimane la missione è senza luce: il suo cellulare lo affida a chi passa di lì, perché lo porti in un villaggio vicino a ricaricare e poi glielo riporti. Dirige una scuola materna con 150 bambini, classi piccole e strapiene. Molti di loro percorrono anche sette chilometri a piedi per arrivare, sotto la pioggia senza scarpe. Appena entrano, si puliscono i piedi sull’erba e solo allora indossano le scarpe. Lei vorrebbe comprare un paio di ciabatte per ciascuno, ma al mercato costano due euro e non può permetterseli.
Accanto alla scuola, nel 2006, era stato inaugurato un dispensario farmaceutico con ambulatorio. Allora le suore erano tre, oggi è rimasta sola. L’ambulatorio ha chiuso, i locali sono vuoti, impolverati, impregnati di odore di chiuso. Suor Sabina stessa ha affrontato un tumore in Italia: le avevano detto di non tornare, ma lei ha risposto che vuole morire con i suoi bambini.
Quando entriamo nelle classi è l’ora del riposino: i piccoli dormono con la testa appoggiata al banco, qualcuno sbircia di sottecchi. Gabriel trascina uno zaino più grande di lui, ha un succo in una busta che morde con i denti e gli cola addosso. Suor Sabina lo asciuga con la dolcezza di una madre.
Alla missione vive sola. Quando non sta bene, le maestre a turno vanno ad aiutarla. Avrebbe bisogno di un’operazione al ginocchio, ma teme che, se partisse, al ritorno qualcuno potrebbe occuparle la casa per cacciarla via. Così resta, anche nel dolore, perché non vuole abbandonare i suoi bambini.
A fine mattinata i piccoli indossano di nuovo le scarpe e ci salutano. Suor Sabina mette sul fuoco la moka e ci porta una torta fatta da lei. Parla ancora di progetti: riaprire il dispensario, realizzare un impianto con panelli fotovoltaici.
È una donna che la vita se l’è mangiata. Una donna che, pur ferita, ha donato tutto per i suoi bambini.
U cori chinu. Così lo chiamava mia nonna. Il cuore pieno. Quella sensazione che ti chiude la gola, ti pressa il petto e ti appanna gli occhi. Quel groppo che ti prende nei momenti di fatica, di scoraggiamento, di pressione. Quando senti di aver bisogno di un abbraccio, di uno sfogo, di un conforto. “Il cuore a pezzi” potrebbero chiamarlo fuori dalla Sicilia, per mia nonna era u cori chinu.
Una sera mi presentai a casa sua in lacrime. Si stava scaldando accanto al braciere. L’aria odorava di cenere e limone bruciato. Abbracciandomi e baciandomi come solo le nonne sanno fare mi disse: “Sfogati che ti fa bene. Hai u cori chinu”.
Stando alle leggi della fisica e della meccanica dei liquidi, sotto la linea dell’equatore, nell’emisfero sud della terra, l’acqua che defluisce da un foro in un recipiente crea un vortice in senso antiorario, al contrario di quanto avviene nell’emisfero boreale. Sfido chiunque, trovandosi dall’altro lato del mondo, adulto o bambino, a non averlo verificato aprendo il rubinetto di un lavandino.
L’ho fatto anch’io. Ma pare che qualcuno sostenga che, in Africa, un giorno l’acqua sia andata persino verso l’alto.
Mani che spingono un lettino, sorrisi, pacche sulle spalle, la sala operatoria, il corridoio, la terapia intensiva, infermieri schierati, applausi e abbracci. Ngufu è il ventesimo bambino operato in questa missione. Venti bambini in sei giorni: un record per il General Hospital di Yaoundé. Una grande soddisfazione per il cardiochirurgo Sasha Agati e l’équipe del Centro di Cardiochirurgia Pediatrica del Mediterraneo di Taormina, che ha concluso una settimana intensa in Camerun, grazie alla onlus "Una Voce per Padre Pio" e al suo presidente, Enzo Palumbo.
In Africa alcune patologie cardiache, se non trattate chirurgicamente, condannano i piccoli pazienti, perché le strutture locali spesso non sono in grado di affrontare interventi complessi senza il supporto di specialisti provenienti dall’estero.
In Europa si fa diagnosi già in utero, qui, invece, spesso è un miraggio persino fare un’ecografia. Dove la povertà è radicata quanto la polvere rossa che copre le strade, il diritto alla salute resta un sogno.
MESSINA – Peppino Mazzullo, o meglio “il Maestro”, come preferisce essere chiamato, classe 1926, quasi un secolo di arte, teatro e personaggi, fra tutti Topo Gigio, di cui è stato la voce dal 1961 al 2006. Vive oggi nel suo paese natale, Santo Stefano di Briga, tra le colline di Messina, dove si è ritirato dopo la pensione. Racconta con emozione e un pizzico di mistero come è nata la voce di Topo Gigio, il personaggio che lo ha reso celebre per oltre quarant’anni.
“Avevo due o tre anni. All’alba mi sveglio, apro gli occhi e vedo ai piedi del letto un personaggino, una cosina così, che parlava. Io mi sono spaventato e ho urlato “Mamma!”, ma non mi veniva la voce. Alla fine, dopo un po’, forse ha avuto pietà quella creaturina, ed è sparita. Solo allora mi è tornata la voce. Ho chiamato mia madre e le ho raccontato quello che avevo visto. Lei mi ha detto: “Non ti preoccupare, è un fuddittu, ti porterà fortuna”. Un episodio infantile rimasto impresso nella memoria del Maestro e che, molti anni dopo, si sarebbe intrecciato con la nascita di Topo Gigio.
“Passano gli anni e io mi trovo in uno studio televisivo in Rai, dove facevo l’attore drammatico e comico. Vedo un pupazzetto e mi accorgo che è identico al fuddito che avevo visto da bambino. Ma mica potevo raccontare questa storia a Maria Perego e suo marito Federico Caldura! Quando mi chiesero un parere, dissi semplicemente: “Mi piace”. Il pupazzo, però, era stato fatto in fretta e sembrava un po’ malconcio, nato per essere solo parte di un numerino musicale con altri topini. Eppure, per me aveva qualcosa di speciale.” Fu in quel momento che nacque la voce che avrebbe accompagnato Topo Gigio per decenni.
“Mi chiesero di provare a dargli una voce, e così feci. “Ma cosa mi dici mai?” dissi per gioco, e in quello stesso momento Gino Bramieri, che era lì con me, mi disse: “Non dimenticare questa voce!”. Non potevo raccontare che per me era la voce del fuddito, di quella creaturina che avevo visto da bambino, ma era la stessa identica figura”.
Così, quasi per destino, Topo Gigio prese vita con la voce di Peppino Mazzullo.
 
    
Il muro. Le reti di metallo, le divise dei militari, le torrette di controllo, i fari, i chek point, i mitra pronti ad entrare in azione. I 12 metri di cemento del muro di separazione. Tutto ti racconta che da quel punto in poi sei in una zona di guerra. Inizia così il documentario del video maker messinese Matteo Arrigo, un viaggio in Palestina tra i volti, la quotidianità, la sofferenza.
(articolo su Gazzetta del sud del 08/12/2016)
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